Il TSO (Trattamento sanitario obbligatorio)

Nessuno può essere sottoposto a visite mediche o a ricovero ospedaliero contro la sua volontà. Questo dice il ministero della giustizia ma…

10426605_637944279646135_5024946332662252393_nLe leggi sul ricovero forzato sono state utilizzate in tutto il mondo per giustificare vari tipi di soprusi: finanziario, sessuale, politico, per profitto commerciale, eredità e addirittura per la sicurezza del governo.  TSO significa Trattamento Sanitario Obbligatorio , ovvero quando una persona viene sottoposta a cure mediche contro la sua volontà (legge del 23 dicembre 1978, articolo 34).
In pratica, tranne alcune rarissime eccezioni, si verifica solo in abito psichiatrico, attraverso il ricovero (forzato) presso i reparti di psichiatria degli ospedali pubblici ( SPDC – Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura ).La legge stabilisce che si può attuare il TSO a sole due condizioni:
1. La persona necessita di cure (secondo i sanitari che l’hanno visitata) e
2. le rifiuta.
Di fatto il TSO viene messo in atto quando la persona appare pericolosa per sé o per gli altri, in soggetti che manifestano minaccia di suicidio, minaccia o compimento di lesione a cose e persone, rifiuto di comunicare con conseguente isolamento, rifiuto di terapia, rifiuto di acqua e cibo.
Può accadere anche che una persona disturbata psichicamente, un tossicodipendente in crisi di astinenza, un alcoldipendente… assumano dei comportamenti imprevedibili o violenti.
In queste situazioni spesso i familiari conviventi o i vicini di casa, qualora la persona sia in terapia presso uno psichiatra, chiedono aiuto allo psichiatra del servizio, oppure nel caso la persona non lo fosse, chiamano direttamente l’ambulanza e/o i vigili o i carabinieri.
La legge stabilisce anche un’esatta procedura che deve essere seguita al fine di mettere in atto il TSO.
Il  Trattamento Sanitario Obbligatorio è disposto con provvedimento del Sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria, del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova momentaneamente.
Egli emana l’ordinanza di TSO solo in presenza di due certificazioni mediche che attestino che:
1. la persona si trova in una situazione di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici;
2. gli interventi proposti vengono rifiutati;
3. non è possibile adottare tempestive misure extraospedaliere.
Tutte e tre le condizioni devono essere presenti contemporaneamente e devono essere certificate da un primo medico, che può essere il medico di famiglia, ma anche un qualsiasi altro medico e convalidate da un secondo medico che deve appartenere alla struttura pubblica (generalmente uno psichiatra della ASL).
La legge non prevede che i due medici debbano essere psichiatri.
Le certificazioni oltre a contenere l’attestazione delle condizioni suddette che giustificano la proposta di TSO, devono motivare la situazione concreta: non devono limitarsi a enunciare le tre condizioni né si devono usare prestampati; in pratica la proposta di TSO deve essere (anche se in breve) motivata.
Ricevute le certificazioni mediche, il Sindaco ha 48 ore per disporre, tramite un’ordinanza, il TSO facendo accompagnare la persona dai vigili e dai sanitari presso un reparto psichiatrico di diagnosi e cura.
In un primo momento la persona viene invitata a seguire vigili e sanitari nel reparto ospedaliero, se si rifiuta viene prelevata con la forza, messa in ambulanza e trasferita al reparto ospedaliero. In teoria la legge fornisce il diritto alla persona di scegliere il reparto dove essere ricoverato.
Nessuno può essere trattenuto contro la sua volontà presso strutture sanitarie o nei reparti psichiatrici di diagnosi e cura a meno che non sia soggetto ad un  provvedimento di TSO.
Il Sindaco ha poi l’obbligo di inviare l’ordinanza di TSO al Giudice Tutelare (entro 48 ore successive al ricovero) per la convalida e il Giudice convalida il provvedimento entro le 48 ore successive (legge 180, art. 3 comma secondo).
Qualora manchi la convalida il TSO decade automaticamente. Il Giudice Tutelare può però anche non convalidare il provvedimento annullandolo.
Quasi mai l’ordinanza del TSO risulta firmata dal sindaco; di solito vi è un Ufficio preposto allo svolgimento della procedura del TSO e un assessore delegato (l’assessore alla sanità; in sua assenza uno qualunque gli altri assessori), che si limita a firmare l’ordinanza.
Il TSO ha per legge la durata di 7 giorni.
Al termine dei 7 giorni, qualora non sia stata presentata dallo psichiatra del servizio una richiesta di prolungamento, il trattamento termina e lo psichiatra, non per forza lo stesso che ha proposto e convalidato il TSO, è tenuto a comunicare al Sindaco la cessazione delle condizioni richieste per l’internamento.
Il Sindaco a sua volta lo comunica al Giudice Tutelare.
Qualora il trattamento venga prolungato, prima della scadenza dei 7 giorni deve essere comunicata al Sindaco una richiesta motivata di prolungamento. Entro 48 ore dal ricevimento della richiesta verrà firmata a nome del sindaco o del suo delegato l’ordinanza di prolungamento, provvedendo a notificarla al Giudice Tutelare nelle 48 ore successive. Il Giudice a questo punto convaliderà o meno il provvedimento e lo comunicherà al sindaco. Nel caso di proroga il paziente deve richiedere la notifica (= comunicazione) per evitare di rimanere chiuso in reparto, risultando ora un ricovero volontario.
Una volta venuto meno il TSO per scadenza dei termini la persona può chiedere di essere dimesso in ogni momento e tale richiesta deve essere esaudita.
Durante il ricovero l’unica possibilità che ha la persona di sottrarsi al Trattamento Sanitario Obbligatorio è quella di accettare la terapia.
Capita però il provvedimento di ricovero forzato venga mantenuto, nonostante il paziente accetti la terapia.
Anche se la legge impone il ricovero forzato solo in casi eccezionali, come già esposto sopra, la realtà però è diversa:
1. Con una certa frequenza i ricoveri coatti (=forzati) vengono fatti senza rispettare pienamente le normative, approfittando del fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle leggi e dei diritti della persona ricoverata. Sovente il paziente viene lasciato all’oscuro del fatto che, allo scadere dei 7 giorni, può lasciare il reparto e così inconsapevolmente viene trattenuto in regime di TSV (= Trattamento S anitario Volontario).
2. Ci sono poi pazienti che, quando si recano in reparto sotto TSV, vengono poi trattenuti in TSO nel momento in cui fanno la richiesta di uscire ed andarsene.
3. Durante la settimana di TSO si assiste ad un terribile stato di debolezza, confusione, spersonalizzazione ed alienazione da parte del paziente che, oltre a subire un grande trauma, viene sottoposto a pesanti terapie psico-farmacologiche, che non fanno altro che annientarlo come individuo, renderlo “innocuo e docile” agli occhi degli operatori.
4. Per il paziente che venga ritenuto “ribelle” si ricorre sia alla contenzione fisica che all’isolamento.
Poiché alcuni contestano che questi episodi avvengano o altrimenti affermano che si tratti di rarissimi episodi, in internet potete trovare molte storie che illustrano queste violazioni.
Quando la persona viene ricoverata in Trattamento Sanitario Obbligatorio presso il servizio psichiatrico, i suoi diritti (primo tra tutti quello alla libertà di movimento e di scelta) vengono limitati ed è obbligata a subire passivamente i trattamenti a lei somministrati.
Ma una serie di diritti inalienabili vengono mantenuti:
1. La persona può fare ricorso al Sindaco contro il TSO. Anche gli amici, i familiari, chiunque abbia a cuore la persona ha questa possibilità. La legge infatti dice espressamente che CHIUNQUE può fare ricorso. Ovviamente si può anche far intervenire un avvocato. Il Sindaco ha l’obbligo di rispondere entro 10 giorni (art. 33 legge 833/78). Se viene presentato il ricorso entro le 48 ore successive al ricovero, conviene farne pervenire una copia al Giudice Tutelare. Se la risposta è negativa, il paziente può presentare la richiesta di revoca direttamente al Tribunale (art. 35 legge 833/78), chiedendo contemporaneamente la sospensione immediata del TSO e delegando, per rappresentarlo in giudizio davanti al Tribunale, una sua persona di fiducia.
2. Benché la persona non possa rifiutare le cure, questa ha il diritto di essere informata sulle terapie a cui viene sottoposta e di scegliere anche tra una serie di proposte alternative. Comunque, nel caso le terapie somministrate siano particolarmente invasive, sarebbe opportuno presentare al responsabile del reparto una dichiarazione di diffida ai sanitari nei confronti delle terapie che dalla persona vengono considerate lesive e può chiedere ed ottenere di inserire tale comunicazione all’interno della cartella clinica.
3. Il TSO non giustifica necessariamente la contenzione; mai comunque la violenza fisica. Qualora venga usata la contenzione fisica, questa dovrebbe essere applicata solo in via eccezionale e per un periodo di tempo non superiore alla somministrazione della terapia. L’art 1 della legge 833 del 23 Dic 78 afferma che “la tutela fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e libertà della persona”. L’utilizzo punitivo della contenzione, eventuali violenze verbali e fisiche degli operatori, fatti questi non ammissibili legalmente, sono reati perseguibili penalmente. In tal caso si può presentare una denuncia alla magistratura.
4. Durante il TSO il paziente ha il sacrosanto diritto di comunicare con chi vuole, anche attraverso telefonate e non è ammissibile, da parte degli infermieri, selezionare le persone che loro ritengono autorizzate ad entrare nel reparto (art.33 legge 833/78)
5. Terminato il periodo di TSO, non sono necessari né una firma per uscire dal reparto, né la presenza di qualcuno che venga a prendere il paziente, assumendosene la responsabilità, in quanto la persona che viene ricoverata in un reparto psichiatrico non è né incapace né interdetta e conserva tutti i diritti e doveri di chiunque altro. Quindi può chiedere di essere dimessa in qualsiasi momento (legge 180, legge Basaglia del 1978) e questa richiesta deve essere immediatamente esaudita, altrimenti ci si trova di fronte al reato di sequestro di persona. Il TSO decade anche nel caso in cui i medici o il Sindaco o il Giudice Tutelare non abbiano specificato nel provvedimento le motivazioni che hanno reso attuabile il Trattamento Sanitario Obbligatorio.
6. Il paziente ha il diritto di comunicare nella sua cartella clinica tutte le informazioni concernenti il suo stato di salute e i trattamenti a cui viene sottoposto.
7. Il paziente ha inoltre il diritto di sapere i nominativi e le qualifiche di chi opera nel reparto. Ogni infermiere deve avere sul camice un cartellino di riconoscimento.

Fonte:  DeutschlandRadio Zwangsbehandlung in der Psychiatrie verboten 23.10.2012

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La storia di Giuseppe Casu morto in TSO.

Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l’ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d’ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d’appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall’evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra.

La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d’ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell’ordine a causa dell’ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l’ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia : «Era addormentato, faceva fatica a parlare».
Un dipinto con la scena del Tso e il… Un dipinto con la scena del Tso e il volto di Casu da giovane

Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L’unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d’alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato – quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d’astinenza.

«Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto.

La prima autopsia parla di una tromboembolia all’arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato “Verità e giustizia per Giuseppe Casu “, e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l’accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all’origine di quell’embolia.

Ma qui inizia “l’incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d’appello di Cagliari. Perché parallelente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L’accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l’ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti.

Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell’autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di “morte improvvisa”, una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello.
La piazza in cui è stato ucciso… La piazza in cui è stato ucciso Giuseppe Casu

Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo».

«Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l’arco di tempo», scrive la corte d’appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse».

È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante».

Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d’astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato».

«Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per “mancanza di personale”.

Di: Francesca Sironi da L’Espressolegata

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