Democrazia verde…

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La libertà non la si ottiene camminando carponi in attesa di una briciola di pane gettata da coloro che ne sbranano a quintali. Continuare a credere che democrazia sia sinonimo di cambiamento in positivo è un pò come credere che la felicità la si ottenga giocando in borsa. La democrazia è verde come la benzina, stesso ossimoro, stessa menzogna. Ogni volta che saltano fuori termini come democrazia diretta, democrazia partecipativa, democrazia liquida, democrazia a cinque stelle, tre asteroidi, una cometa, democrazia gialla, viola o blu si fa un passo enorme all’indietro. Non è il delegare che risolverà la miseria in cui nuotiamo, non lo è mai stato, basta guardare gli ultimi secoli e mai lo sarà. Ora vi è la novità della democrazia legata all’ambiente (nel colore non certo nel messaggio) e alla liberazione animale. Parlare di liberazione del vivente con in bocca la parola democrazia è come avere un cadavere in casa e parlare contro la pena di morte. Questa mentalità reazionaria, nel tempo, è andata sempre più a inquinare e ha accompagnato di pari passo lo stato in divenire del disastro. Questa mentalità che possiamo chiamare antropocentrica e specista trova la sua ragione d’essere nella condizione di dissociazione, di distacco cioè nei confronti del resto circostante, in cui l’essere umano si definisce altro (superiore) dal resto del mondo naturale. Volete credere che la Terra e coloro che la abitano abbiano un giovamento perchè voi trascinate le catene della delega dalla mattina alla sera, bene, se siete contenti voi, ma non cercate di insegnare lo slancio della liberazione animale, sono peculiarità, virtù a voi sconosciute. Seduti su sgabelli di cristallo in qualche locale chic sorseggiate cocktails alla moda parlando di balene e tendoni da circo, voi dentro al caldo artificiale sorridenti per aver trovato un buon nascondiglio di parcheggio al vostro suv, noi fuori al gelo a seguire i raggi della luna e dei lamenti. I vostri maestri hanno il ghigno dei carnefici. Nella foresta, soli, il bramito del cervo fa paura, tranquilli non ci incontreremo mai…
Olmo

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Nasce al monte la Lega dei cavatori.

CARRARA Cento associati: «Molti di noi hanno strappato la tessera sindacale». Sicurezza e qualità del lavoro in primo piano.

Hanno sfiduciato i sindacati senza distinzione di sigla e orientamento politico, decidendo di impegnarsi in prima persona a tutela dei propri diritti, per contribuire a migliorare l’intero settore lapideo e il suo rapporto con la città. Sono gli oltre 100 lavoratori dei bacini marmiferi che hanno partecipato giovedì sera alla riunione costitutiva della Lega dei Cavatori. Si tratta di una nuova associazione nata sulla scia della tragica serie di incidenti mortali registrati negli ultimi 10 mesi del settore. «Abbiamo iniziato a vederci e a confrontarci perché siamo convinti che i problemi delle cave li può risolvere solo chi ci lavora» hanno spiegato i “fondatori” della Lega, annunciando che d’ora in avanti le riunioni saranno settimanali, ogni mercoledì alle 20.30. Lo statuto é in fase di stesura, la campagna di tesseramento è

Un'immagine storica dell?estrazione del marmo nelle cave di Carrara. ANSA ARCHIVIO
Un’immagine storica dell?estrazione del marmo nelle cave di Carrara. ANSA ARCHIVIO
stata appena lanciata ma gli obiettivi sono già chiari: «Sicurezza e qualità del lavoro, controllo dell’escavazione, rapporto con la cittadinanza e inserimento del mestiere del cavatore nella lista dei lavori usuranti»: queste le priorità della Lega che lancia apertamente la sfida alle parti sociali. «Molti di noi hanno strappato la tessera del sindacato, vogliamo riprenderci le redini del nostro futuro, basta delegare. Siamo convinti che i problemi delle cave possano essere risolti solo da chi ci lavora» hanno spiegato i cavatori, evidentemente delusi dell’operato dei sindacati. Ma gli argomenti sul tavolo non sono solo quelli più direttamente collegati al mestiere dell’operatore di cava, come la sicurezza o l’età della pensione. No la Lega lavora anche per costruire anzi ri-costruire il rapporto con la città andando a rinsaldare un legame che c’è sempre stato ma che negli ultimi anni si è lentamente “sfaldato”: «Si deve ricostruire un rapporto di fiducia fra cavatori e comunità carrarese, come è sempre stato nella storia della nostra città» si legge nel volantino in distribuzione in queste ore. Insomma il percorso di preannuncia lungo e articolato e così, nel lanciare un appello a tutti i cavatori ad aderire, la Lega dei Cavatori anticipa il suo primo impegno ufficiale. Una delegazione della neonata associazione sarà a Roma per partecipare alle prossime audizioni davanti alla Commissione di Inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato impegnata in un’indagine sugli incidenti mortali nei bacini mammiferi carraresi. Nelle scorse settimane, i senatori hanno ascoltato parti sociali, rappresentanti del mono dell’impresa, il procuratore capo Aldo Giubilaro e Maura Pellegri, responsabile del Dipartimento per la prevenzione degli infortuni sul lavoro dell’Asl. In occasione dell’ultimo appuntamento, a causa dell’impossibilità di ascoltare tutti nel poco tempo a disposizione, la commissione ha “aggiornato” l’audizione, invitando parti sociali e imprenditori a tornare a Roma: a questa seconda convocazione, ancora da programmare, dovrebbe dunque partecipare anche la Lega dei Cavatori per dare voce a chi, nei bacini marmiferi, ci lavora davvero.

Di Cinzia Chiappini da “Il Tirreno”

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MARIA SOLEDAD ROSAS

Maria Soledad Rosas

23 maggio 1974 – 23 maggio 2016
Maria Soledad Rosas (detta Sole) nasce nella capitale Argentina il 23 maggio 1974.
Giunta in Italia il 22 giugno del 1997, in cerca di un tetto, si rivolge con una sua amica alla sede torinese della Federazione Anarchica Italiana, che la indirizzano all’ “Asilo Occupato”
Sole frequenta stabilmente gli ambienti squatters torinesi, verso la fine dell’estate conosce Edoardo Massari (detto Baleno), che diventerà il suo compagno.
Il 4 marzo 1998 Sole viene arrestata dalla polizia insieme a Baleno e Silvano Pelissero. A tutti viene contestato il reato di “ecoterrorismo” e di “associazione sovversiva” per i sabotaggi e attentati avvenuti in Val di Susa per protestare contro la TAV, tra il 1996 e il 1998.
Nonostante l’infondatezza delle prove i magistrati Maurizio Laudi e Marcello Tatangelo decidono sia per lei che per gli altri compagni il regime preventivo di isolamento carcerario. Un vile atto per colpire il nascente movimento NO TAV.
Il 28 marzo 1998 Baleno viene trovato impiccato nella sua cella del carcere Vallette di Torino.
Sole scrive:
“ Compagni,
la rabbia mi domina in questo momento. Io ho sempre pensato che ognuno è responsabile di quello che fa, però questa volta ci sono dei colpevoli e voglio dire a voce molto alta chi sono stati quelli che hanno ucciso Edo: lo Stato, i giudici, i magistrati, il giornalismo, il T.A.V., la Polizia, il carcere, tutte le leggi, le regole e tutta quella società serva che accetta questo sistema.
Noi abbiamo lottato sempre contro queste imposizioni e’ per questo che siamo finiti in galera.
La galera e’ un posto di tortura fisica e psichica, qua non si dispone di assolutamente niente, non si può decidere a che ora alzarsi, che cosa mangiare, con chi parlare, chi incontrare, a che ora vedere il sole. Per tutto bisogna fare una “domandina”, anche per leggere un libro. Rumore di chiavi, di cancelli che si aprono e si chiudono, voci che non dicono niente, voci che fanno eco in questi corridoi freddi, scarpe di gomma per non fare rumore ed essere spiati nei momenti meno pensati, la luce di una pila che alla sera controlla il tuo sonno, posta controllata, parole vietate.
Tutto un caos, tutto un inferno, tutto la morte.
Così ti ammazzano tutti i giorni, piano piano per farti sentire più dolore, invece Edo ha voluto finire subito con questo male infernale. Almeno lui si è permesso di avere un ultimo gesto di minima libertà, di decidere lui quando finirla con questa tortura.
Intanto mi castigano e mi mettono in isolamento, questo non solo vuol dire non vedere nessuno, questo vuol dire non essere informata di niente, non avere nulla neanche una coperta, hanno paura che io mi uccida, secondo loro il mio è un isolamento cautelare, lo fanno per “salvaguardarmi” e così deresponsabilizzarsi se anche io decido di finire con questa tortura. Non mi lasciano piangere in pace, non mi lasciano avere un ultimo incontro con il mio Baleno.
Ho per 24 ore al giorno, un’agente di custodia a non più di 5 metri di distanza.
Dopo quello che è successo sono venuti i politici dei Verdi a farmi le condoglianze e per tranquillizzarmi non hanno avuto idea migliore che dirmi: “adesso sicuramente tutto si risolverà più in fretta, dopo l’accaduto tutti staranno dietro al processo con maggiore attenzione, magari ti daranno anche gli arresti domiciliari”. Dopo questo discorso io ero senza parole, stupita, però ho potuto rispondere se c’è bisogno della morte di una persona per commuovere un pezzo di merda, in questo caso il giudice.
Insisto, in carcere hanno ammazzato altre persone e oggi hanno ucciso Edo, questi terroristi che hanno la licenza di ammazzare.
Io cercherò la forza da qualche parte, non lo so, sinceramente non ho più voglia, però devo continuare, lo farò per la mia dignità e in nome di Edo.
L’unica cosa che mi tranquillizza saperèe’ che Edo non soffre più. Protesto, protesto con tanta rabbia e dolore
.L’11 luglio 1998 Sole viene trovata impiccata nella comunità “Sottoiponti” di Bene Vagienna, dove era stata trasferita per scontare gli arresti domiciliari .
Per non dimenticare ….

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Il 22 maggio muore Gaetano Bresci.

Dal registro del carcere, che descriveva vita e morte dell’ergastolano, manca la pagina con il numero 515, la matricola di Bresci. Anche all’Archivio Generale dello Stato, a Roma, non c’è nulla che riguardi Gaetano Bresci. Secondo Arrigo Petacco, autore di una fortunata biografia di Bresci, è anche scomparso il contenuto del fascicolo che, tra le “carte segrete” di Giolitti, racchiudeva la documentazione non ufficiale sulla morte “dell’anarchico che venne dall’America”.
Il corpo di Bresci fu sepolto il 26 maggio 1901 nel cimitero di Santo Stefano. Nella fossa, secondo fonti ufficiose, furono gettate anche tutte le sue cose. Secondo altre fonti il corpo di Bresci fu invece gettato in mare.
Della detenzione dell’anarchico rimase soltanto un cimelio, il berretto da ergastolano: contrassegnato con il numero 515, il copricapo era conservato nel piccolo museo del penitenziario insieme al berretto di un altro famoso anarchico, Pietro Acciarito, che aveva cercato di uccidere Umberto I nel 1897, ovviamente senza successo. Entrambi i berretti andarono distrutti durante una rivolta dei detenuti scoppiata a Santo Stefano al termine della Seconda Guerra Mondiale.
Nel museo criminologico di Roma sono poi conservati alcuni oggetti sequestrati a Bresci dopo l’arresto: la rivoltella che gli era servita per uccidere il re Umberto I, una macchina fotografica, reagenti per lo sviluppo delle foto e due valige con effetti personali.
Il 29 luglio del 2004, nel 104° anniversario del regicidio, gli anarchici torinesi hanno ricoperto il monumento a Umberto I che sorge sulla collina di Superga a Torino, ed hanno apposto una lapide in ricordo di Gaetano Bresci.
A Carrara, cuore dell’anarchismo italiano, è stato eretto un monumento a Bresci, opera dello scultore Sergio Signori. L’opera, rimasta incompiuta per la morte dell’artista, sorge nei giardini di Turigliano, davanti al cimitero, ed è stata eseguita su commissione dell’ anarchico Ugo Mazzucchelli.

Susanna Berti FranceschiIl monumento eretto a Gaetano Bresci a Carrara.

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Alberto Meschi e l’alcolismo.

La bottega del vinaio: spazio naturale per la socialità del lavoro, dove pubblico e privato si intrecciano. Per i metallurgici, i tessili e i nuovi schiavi della macchina, il vino è un miracoloso carburante della caldaia corpo umano, antidoto alla fatica e alla tristezza.

L’alienazione, il disagio psicologico dei nuovi soggetti sociali, sradicati dal lavoro naturalmente regolato delle campagne e delle botteghe artigiane, si manifestano così in modo evidente. Anche nel Nord Europa, sia pure con differenti bevande, è sempre il moloch industriale a indirizzare i forzati della catena verso l’alcolismo.

Emblematica l’immagine del Vicolo del Gin (W. Hogarth) con il padre di famiglia che sperpera la paga del sabato all’osteria. Sull’onda di Zola e della Scapigliatura la letteratura sociale evoca la tristezza della miseria ma anche la giocosità dei commensali affamati. Nelle taverne fetide bollono le pentole dei maccheroni. Cleto Arrighi nel suo Ventre di Milano descrive questa alimentazione plebea: polenta fritta e baccalà, o la ghiotta “repubblica” mistura combinata con gli avanzi del salumaio, pane fatto con farina, cenere e polvere di marmo, e “vini che non si dovrebbero bere”.

La cattiva qualità del vino minaccia la salute dei malcapitati bevitori: “… fatte alcune eccezioni, si ha un liquido molto imbevibile. Ora siccome in alcune cantine si vendono vini a 20 centesimi il fiasco, non sarebbe bene che da chi spetta si analizzassero un momento codesti vini? …L’operaio non ci bada, pur di spendere poco, acquistando delle bevande degne della corrente del fiume” (L’Appennino, 1894).

In Europa, a fine ‘800, si assiste a una generale levata di scudi contro le “classi pericolose”. Mentre le prefetture del Regno emanano disposizioni per sorvegliare i potenziali luoghi di ritrovo dei sovversivi, arrestando questuanti e cantastorie. Così, per la stampa benpensante l’osteria è “un covo di perdizione ove i capi setta del radicalismo, del socialismo e dell’anarchia arruolano i loro gregari, ove la bestemmia ha tutte le sue forme infernali”. La descrizione è demonizzante: “…

Antro il cui ambiente è saturo di gas alcolici e di fumo, e vi echeggia un cicaleccio strano, un vocìo incomposto… luogo che è per l’operaio sorgente di tutte le sventure, e la causa di tutti i suoi malanni. L’operaio va incontro a mille malanni fino alla paralisi o delirium tremens e si procura figli idioti, rachitici, convulsionari… Vogliamo che la polizia vi eserciti la massima sorveglianza, per ritrarli da quei covi di perdizione e di anarchia” (L’Unità Cattolica, 1894).

Ecco l’osteria: occasione di socializzazione antagonista, sempiterna piaga sociale. Il movimento operaio ingaggia allora una battaglia di civiltà, invito ai lavoratori del braccio alla moderazione nel bere che accomuna le varie correnti del socialismo. Vi partecipano la Critica sociale di Turati come la stampa sindacalista anarchica. Non contro il vino, ma contro l’abbrutimento provocato dall’alcol.

Drammatica la testimonianza di Alberto Meschi: “Chi vi scrive è figlio di un alcolizzato suicidatosi a 33 anni per il troppo alcol bevuto, e ha passato la sua fanciullezza nella casa paterna, resa squallida e triste dalle continue liti tra il babbo e la mamma che ha sopportato il duro calvario di convivenza con un uomo, alcolizzato, che trasformava la casa, il focolare domestico, in un luogo di tormento e di dolori inenarrabili.

Le sofferenze morali, le privazioni erano tante e dolorose che formano ancor oggi un ben doloroso ricordo” (Il Cavatore, 1921). Meschi, “uomo di marmo” e sindacalista mitico dei cavatori apuani – oggi ricordato da un monumento nella sua Carrara – aveva promosso fin dal 1912 una lotta affinché i padroni cessassero di pagare il salario nelle osterie: “…I lavoratori si ubriacano mentre aspettano per delle ore nelle bettole la loro paga. Metteremo fine anche a questo sistema”.
Il 23 giugno 1912 Meschi in un comizio tenutosi a Carrara al Politeama Verdi affermò che il problema dell’alcolismo veniva favorito dai padroni secondo l’usanza di retribuire la quindicina ai cavatori dentro le bettole,usanza che secondo il segretario dell’Unione Cavatori di Carrara Cargioli obbligava l’operaio ad attendere per ore l’arrivo del capo cava con il salario,e nell’attesa beveva.

“Attende seduto intorno al tavolo chiacchierando con degli sventurati come lui,attende e beve,beve di quel liquore che gli darà la pazzia,che inevitabilmente lo porterà alla tubercolosi,così fino a che gli si annebbierà la vista e avrà perso la coscienza di se stesso,e quando avrà la paga

rimane,perché ormai è un essere che più non ragiona,non ha di umano nemmeno più le sembianze,quell’uomo ormai assomiglia alla bestia,capace nella sua incoscienza folle di sciupare nel vino tutta la sua quindicina,lasciando senza pane la sua disgraziata famiglia.

Allora i benpensanti grideranno all’abbrutito,diranno magari che vi sono in quantità scuole serali per facilitare l’educazione del lavoratore,e toglierlo alla bettola.

Ma perdio,se quell’uomo coi vostri sistemi medioevali lo avete spinto voi all’abbrutimento,al precipizio? Ma se la sua infelice famiglia non puol altro che ringraziar voi se è rimasta sprovvista di pane?”

Dal web

Alberto Meschi e l'alcolismo.
Alberto Meschi e l’alcolismo.
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Perché gli esseri umani lavorano? A quale scopo?

La risposta è semplice. Se l’uomo ha strofinato a lungo due pezzi di legno uno contro l’altro, se ha tagliato una selce, se l’ha usata per ore contro la polvere, era per ottenere il fuoco, per ottenere un’arma, o magari uno strumento.
Se ha abbattuto alberi, era per costruirsi una capanna; se ha intrecciato fibre vegetali, era per modellare dei vestiti o delle reti.
Tutti i suoi gesti erano gesti utili.
Quando la semplicità dei suoi gusti, e anche l’orizzonte necessariamente limitato dei suoi desideri, gli ebbero procurato del tempo libero, a seguito della sua destrezza e dei mezzi scoperti da lui e dai suoi simili, ha trovato buona cosa fare dei gesti la cui utilità non era così evidente, ma che gli procuravano una quantità di piaceri che non ritenne trascurabile. Diede alla pietra le forme che gli piacevano; tracciò sul legno le immagini che lo avevano colpito.
In ogni caso, i gesti che faceva, necessari per i suoi bisogni immediati o necessari per i suoi piaceri, erano gesti di cui non contestava l’utilità; del resto, era padronissimo di non fare quelli del secondo tipo.
Attraverso quali vie l’uomo di allora che lavorava il corno di renna, volontariamente, per il proprio piacere, sia giunto all’uomo di oggi che lavora l’avorio per forza, per il piacere degli altri, non cercherò di descriverlo.
Per migliaia di uomini, i gesti piacevoli fatti volontariamente sono diventati un «mestiere», senza il quale non possono vivere. I gesti che servivano ad abbellire il loro ambiente sono diventati una condizione inevitabile di vita. I gesti che facevano per affinare i sensi, ora li indeboliscono, usurandoli prematuramente.
Gli altri uomini sono quindi costretti a fare i gesti necessari per mantenere la vita sociale, e usano la loro forza per quegli stessi gesti. Lavorano per coloro che fanno «mestiere» di gesti piacevoli, per coloro che vivono nell’attività assoluta a seguito di un malinteso sociale.
Coloro che non lavorano, aberrazione completa, straordinaria, fanno controllare a loro profitto il lavoro utile o piacevole degli altri. E questo servizio di controllo aumenta il numero di persone che non fanno un lavoro utile, e nemmeno piacevole. Pertanto, aumenta la quota di lavoro degli altri.
Il cervello ha un bello sforzarsi di continuo allo scopo di migliorare il lavoro del corpo, fare continue scoperte, costanti invenzioni, il risultato è quasi zero, il numero di intermediari, di controllori, di inutili, aumenta in proporzione.
Una specie di follia finisce con l’impadronirsi del mondo. Si arriva a preferire, ai gesti di prima utilità, i gesti piacevoli o persino quelli puramente inutili. Chi non ha mangiato nulla, o assai poco, si farà fare dei biglietti da visita. Chi non avrà la camicia, indosserà colletti dal candore immacolato. Quante sciocchezze generate dai pregiudizi e dall’imbecille vanità degli individui!
A seguito di una forza puramente fittizia, si usano le proprie qualità a vanvera.
Uomini, il cui interno è nero e sporco, dipingeranno di smalto la facciata; altri, i cui bambini non possono andare a scuola, comporranno o stamperanno prospetti o menu di gala; altri ancora tesseranno meravigliosi arazzi, mentre la donna che hanno in casa non ha una veste calda da mettere sul ventre gravido.
L’uomo ha dimenticato che, in origine, faceva gesti di lavoro innanzitutto per vivere, e poi per divertirsi. Ciò che dobbiamo fare è ricordarglielo.

(Albert libertad) Schiavitù del lavoro

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Il sacrificio.

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Ultimamente mi torna in mente una frase che lessi alcuni anni fa, una frase che per qualche ragione a me misteriosa mi è rimasta impressa in maniera particolare: . Non vi è dubbio che letta velocemente ha un suo fascino e spesso, anche se in altri termini, la riscontro ancora oggi in alcuni scritti sulla liberazione animale. Per quanto mi riguarda vi è un’incomprensione di base, o meglio non chiarisce, non spiega, non affronta il fatto che la loro libertà (gli altri/e) è anche la nostra e quindi lottare per la liberazione animale significa lottare per la nostra stessa liberazione. La schiavitù non umana non è un mondo a sé, scollegato da un ideologia repressiva più complessa. Il termine schiavitù non ha correnti “privilegiate” dove soltanto una categoria di animali può farne “uso e consumo”, anche per i termini violenza e dominio sulle categorie, il discorso non cambia, colui o coloro che subiscono sono per definizione indifesi e alla mercé, come rapporto di terrificante dipendenza di “qualcuno” o nel caso degli animali non umani all’assurdo del “qualcosa” (la macchina che trita tutto). Dimenticare o non interrogarsi su aspetti generali di sfruttamento animale può spingerci a cadere nella trappola manipolatoria che il sistema può cambiare o diventare più sostenibile. Dimenticare o non interrogarsi su questi aspetti si arriva infine a ritenere accettabile questo dominio a patto che si possa “migliorare” la schiavitù animale non umana. Viviamo in un sistema piramidale dove la devastazione e lo sfruttamento su tutti gli esseri viventi sono pilastro per la sua stessa sopravvivenza. Vogliamo elemosinare a suoi esecutori un miglioramento delle nostre condizioni? ci fa sentire meglio? pensare che abolire delle leggi certamente violente e infami sugli animali non umani, esse abolite possano risolvere la nostra condanna animale al vivere incatenati? Ci sentiamo più fortunati di altri? bene fatevi un giro più ampio del vostro quartiere e scoprirete sofferenza e squallore, violenza e sopraffazione umana e animale, unite con anelli di ferro e fango per il semplice fatto che siamo tutti animali. L’esistenza stessa del sistema è sintomo di dolore, nessuno può difendersi nel momento in cui spalanca gli occhi al baratro della menzogna che ammanta le nostre convinzioni granitiche di cartapesta. Non siamo la specie eletta, il bene e il male lo lasciamo a coloro che ci hanno privato della libertà, concetti morali di razza superiore. A me resta solo uno sguardo di complicità totale con chi soffre la condizione di schiavo, io stesso schiavo, abbracciato tremante ai miei fratelli e sorelle di qualsiasi forma, colore, dimensione, profumo…

Olmo

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Tu ti lamenti? Ma di cosa ti lamenti?

Tu ti lamenti? Ma di cosa ti lamenti? Prendi il bastone e tira fuori i denti’!

Non ha alcun senso lamentarsi se il male di cui soffriamo ha origine dalle scelte che facciamo, dalle nostre convinzioni più profonde e apparentemente intoccabili. Se esistono i padroni è solo perché i molti, attraverso l’educazione, hanno imparato a farsi servi e a crearsi i padroni, hanno imparato ad obbedire pazientemente, a rassegnarsi, a stare calmi, a fare gli ‘educati’, a sperare in un ipotetico mondo migliore soltanto dopo la loro dipartita (se fanno i bravi e obbediscono), e considerano questa loro condizione di perenni illusi acquiescenti addomesticati persino giusta e doverosa.
‘Tu ti lamenti? Ma di cosa ti lamenti? Prendi il bastone e tira fuori i denti’!
Lamentu di un servu a un santu crucifissu
(antica versione non censurata dalla Chiesa di anonimo siciliano).
Un servo, tempo fa, in questa piazza, così pregava Cristo dicendogli: ‘Signore, il mio padrone mi strapazza, mi tratta come un cane randagio, se mi lamento mi minaccia ancora di più, mi imprigiona con ferro e catene, e si prende tutto con la sua manaccia. La mia vita, dice lui, non è neanche la mia, per cui vi prego, distruggetela voi per me, Cristo, questa malarazza’.
E Cristo gli rispondeva: ‘ma tu hai forse le braccia di giunco? Oppure le hai inchiodate come son le mie? Chi vuole giustizia se la faccia! E non sperare che altri la facciano per te, al posto tuo! Se sei un uomo, se hai buon senso, fai tesoro di quel che ti dico. Io non sarei qui, sopra questa croce, se avessi fatto quello che ti sto dicendo’!

Malarazza: Testo. Lamento di un servo ad un santo crocifisso. http://www.irsap-agrigentum.it/lionardo_vigo_un_senvu.html

https://www.youtube.com/watch?v=XCKi_6GRh5I

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Il manifesto della razza.

Pubblichiamo questo testo aberrante il quale rappresenta un chiaro esempio di che cosa sia capace di costruire una comunità scientifica fondata sull’ideologia e sulla politica dominante. Il ministro segretario del partito ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi.
Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
2. Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.
5. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7. È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.

(Da “La difesa della razza”, direttore Telesio Interlandi, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, p. 2).
Difesa della razza

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BANDITI DA SARONNO – la saga continua

Le ultime puntate Dal movimentato sgombero nel centro cittadino e l’immediata rioccupazione in via Monte Generoso ad oggi a Saronno è trascorso un mese e mezzo abbondante di relativa tranquillità. Essere dentro ad un Telos occupato da circa due mesi offre spazio a eventuali riflessioni su rapporti di forza, resistenza e massa critica. Come diciamo dallo sgombero del Telos di via Milano, a Saronno un Telos è per noi necessario, e sarà dura che qualcuno ne impedisca la presenza fin tanto che nella nostra zona rimarrà attiva una buona fetta di popolazione giovanile. La pressione questurina tuttavia non si è allentata, e con essa i tentativi, più o meno espliciti, di sotterrare la nostra esperienza.

Questura di Varese: campioni di infamità Nelle ultime settimane sono stati notificati altri 3 avvii di procedimento per il Foglio Di Via, di cui due già attivi e uno in attesa di convalida (o revoca). In tutto da due anni a ‘sta parte sono 14 i fogli di via con cui la Questura di Varese ha provato a frapporsi tra di noi, tra i nostri rapporti e tra i nostri percorsi. Di questi 14 fogli di via, 3 non sono stati confermati, uno è – come detto – in attesa, e gli altri sono attivi. Già di per sé il foglio di via risulta una misura poliziesca e totalitaria disgustosa, ma in alcuni casi la Questura di Varese si è distinta particolarmente per infamia. Ci teniamo a raccontare un episodio in particolare. Un compagno a cui è stato dato il foglio di via da Saronno abita, come molti altri, in uno dei paesi limitrofi che hanno in Saronno un punto di riferimento imprescindibile: stazione, ospedale, uffici, scuole, impianti sportivi. Oltre ovviamente al naturale desiderio di movimento e ai rapporti personali e affettivi. Nella fattispecie questo compagno ha, come molti altri di noi, alcuni parenti residenti a Saronno, nel suo caso i nonni con i quali per anni ha avuto una frequentazione giornaliera. Questo, oltre a palesare come il foglio di via sia una misura decisamente restrittiva e invadente anche della sfera affettiva, secondo la legislazione sarebbe anche dovuto essere un motivo valido e sufficiente per farlo cadere. Ma la Questura di Varese, memore della figuraccia di qualche mese prima con i tre avvii di procedimento finiti nel nulla, ha deciso di rincarare la dose: ha contattato i nonni del nostro compagno, li ha convocati in Questura e intimidendoli – blaterando del ruolo di capo di loro nipote, della pericolosità sociale dello stesso e altre boiate simili – ha estorto loro una firma in cui attestano che il rapporto con loro nipote è solo anagrafico e non di reale frequentazione e affetto.

La carta è solo carta Non c’è bisogno di questo estremo per notare la violenza delle misure poliziesche, e non c’è bisogno di questo esempio nemmeno per accorgersi dell’infamità dei servi dello Stato. Lo abbiamo raccontato a distanza di qualche mese per condividere con quante più persone possibile fino a che punto si spingono pur di spezzare i legami che ci uniscono e i percorsi di lotta intrapresi. Proprio questo aspetto è centrale nella nostra scelta collettiva di non rispettare alcun foglio di via. Come abbiamo già detto e ripetuto non sarà la Questura a decidere dove e con chi possiamo stare. In un periodo storico in cui è un pezzo di carta a decidere la sorte di un individuo, se può stare al di qua o al di là di una frontiera, rispedire al mittente la prepotenza sbirresca ci pare davvero il minimo. La carta è solo carta, la carta brucerà.

Banditi di Saronno

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Verso il 1889.

Per dare un’idea di quale possa essere il punto di arrivo delle “riforme” in corso per lavoratori e disoccupati, donne e vecchi, giovani e handicappati, sofferenti psichici e bambini, ecco il regolamento interno, del 1889, in vigore in una azienda milanese. Può sembrare un testo “satirico”, costruito a tavolino, ma è autentico e lo riprendiamo dall’Ecoapuano di venti anni fa.
All’attenzione del personale
I) Il timore di Dio, le buone maniere e la puntualità sono condizioni indispensabili per il personale di una Azienda ben organizzata.
II) Da oggi in poi, il personale deve essere presente al lavoro dalle ore 6 del mattino fino alle ore 6 di sera. Alla domenica saranno effettuate delle visite in Chiesa. le preghiere saranno recitate ogni mattina nell’ufficio principale.
III) Siamo fiduciosi che tutti i dipendenti effettueranno le ore di straordinario che la Compagnia riterrà necessarie.
IV) Della pulizia degli uffici saranno responsabili gli impiegati più anziani. Ogni giovedì il personale sarà presente 40 minuti prima delle preghiere e resterà a disposizione dopo la chiusura degli uffici.
V) Saranno indossati abiti semplici: sono proibiti i colori vivaci. il personale deve vestire in modo modesto. In ufficio è proibito l’uso di berretti o di mantelli con cappuccio, visto che è a disposizione del personale una stufa. In caso di condizioni meteorologiche particolarmente avverse, saranno permessi cappelli e sciarpe. Ogni impiegato deve portare ogni giorno due chili di carbone per alimentare la stufa.
VI) E’ proibito parlare durante le ore di ufficio. Un impiegato che fuma, beve alcoolici, frequenta case da biliardo o ritrovi politici compromette il suo onore, il suo credito, la sua probità e reputazione.
VII) E’ permesso consumare qualche genere alimentare tra le 11,30 e mezzogiorno senza peraltro interrompere il lavoro.
VIII) In presenza di clienti, di membri della direzione e di rappresentanti della stampa, il comportamento del dipendente deve essere rispettoso e modesto.
IX) Ogni dipendente deve preoccuparsi della propria salute. Lo stipendio non sarà corrisposto in caso di malattia e, pertanto, si consiglia al personale di risparmiare una parte considerevole dello stipendio per i giorni di malattia e per evitare di divenire un peso per la comunità quando sarà vecchio e inabile al lavoro.
X) Infine vorremmo attirare l’attenzione di tutto il personale sulla liberalità delle nuove disposizioni.
In cambio ci attendiamo un sensibile aumento della produzione.

Marcello Palagitrolley-track-work-on-maple-street-circa-1900

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