Ecco chi era il rivoluzionario Che Guevara.

Un celebre scrittore latino-americano, Vargas Llosa, mette in luce gli aspetti meno noti e tutt’altro che libertari del famoso eroe latino-americano.

a cura di Luciano Atticciati

Che Guevara, che fece così tanto (o era così poco?) per distruggere il capitalismo, ora è un tipico marchio capitalista. La sua immagine adorna tazze, cappucci, accendini, portachiavi, portafogli, protezioni di baseball, cappelli, fazzoletti, canottiere, magliette, borse, jeans, e naturalmente quelle onnipresenti t-shirts con la fotografia scattata da Alberto Korda del rubacuori socialista con il suo basco durante i primi anni della rivoluzione. Come è successo che il Che sia passato dal mirino fotografico nell’immagine che, ventotto anni dopo la sua morte, è ancora il marchio del rivoluzionario (o del capitalista?) chic? Sean O’ Hagan scrisse nel «The Observer» che esisteva persino un sapone in polvere con lo slogan «Che lava più bianco».

I marchi del Che sono adoperati da grandi e piccole imprese, come la Burlington Coat Factory, che ha realizzato una pubblicità televisiva con dei giovani in pantaloni da lavoro e t-shirt del Che, o il Flamingo’s Boutique in Union City, New Jersey, il cui proprietario rispondeva alla furia degli esuli cubani locali con questo incredibile argomento: «Io vendo qualunque cosa la gente voglia comprare». I rivoluzionari anche si uniscono alla frenesia di vendita, «Il Che store», rifornisce «per tutti i vostri bisogni rivoluzionari» su Internet, mentre il giornalista italiano Gianni Minà ha venduto a Robert Redford i diritti sui diari del Che, i ricordi del suo viaggio giovanile in Sud America del 1952, in cambio dei diritti sul lancio della pellicola I Diari della Motocicletta con la finalità di produrre il suo proprio documentario. Per non dimenticare Alberto Granado, l’uomo che accompagnò il Che nel suo viaggio giovanile e offre consulenze sul personaggio, ed ora protesta a Madrid, secondo «El País», che l’embargo americano contro Cuba rende difficile la raccolta dei suoi diritti d’autore. Per ulteriore ironia: la casa in cui Guevara è nato, a Rosario in Argentina, una splendida struttura del primo Novecento, angolo Urquiza e Entre Ríos, fino a poco tempo fa è stata occupata dal fondo pensioni private AFJP Máxima, una società che ha dato vita alla privatizzazione della previdenza sociale in Argentina negli anni Novanta.

La trasformazione di Che Guevara in un marchio capitalista non è nuova, ma il fenomeno ha avuto un significativo revival dopo anni di crisi politica e ideologica di tutto ciò che Guevara rappresentava. Questo successo è dovuto in pratica ai Diari della Motocicletta, il film prodotto da Robert Redford e diretto da Walter Salles (uno dei tre film fatti o in fase di realizzazione negli ultimi due anni, gli altri due sono stati diretti da Josh Evans e Steven Soderbergh). Piacevoli panorami sfuggiti agli effetti dell’inquinamento capitalista, il film mostra il giovane in un viaggio di auto-coscienza e insieme di conoscenza del problema sociale, una reinvenzione dell’Uomo ispirata a Sartre.

Ma per essere più precisi, il corrente revival, parte dal 1997, trentesimo anniversario della morte del Che, quando cinque biografie arrivarono in libreria, e la sua salma venne riscoperta nei pressi dell’aeroporto Vallegrande in Bolivia, dopo che un generale in pensione in una spettacolare rivelazione, ne fece scoprire l’esatta ubicazione. L’anniversario riportò l’attenzione su Freddy Alborta, il famoso fotografo del Che morto e disposto su un tavolo simile al celebre ritratto di Cristo del Mantegna.

È caratteristico per i seguaci di un culto non di conoscere la vita reale del loro eroe, la vera storia. Molti Rasta rinuncerebbero ad Hailé Selassié se conoscessero ciò che realmente era. Non è sorprendente che gli attuali seguaci di Guevara, suoi nuovi post-comunisti ammiratori, anche si deluderebbero di aderire a un mito ad eccezione dei giovani argentini che dicono «Ho una t-shirt del Che ma non so il perché».

Alcuni che hanno accolto e invocato l’immagine di Guevara come un simbolo di giustizia e di ribellione contro gli abusi del potere. In Libano i dimostranti protestavano contro la Siria sulla fossa del precedente Primo Ministro Rafiq Hariri portando l’immagine del Che. Thierry Henry, un calciatore francese, che gioca per l’Arsenal in Inghilterra, mostrava ad un gran galà organizzato dalla FIFA (l’organizzazione del calcio mondiale) una maglietta rosso-nera del Che. In un recente numero del «New York Times» Manhola Dargis notava: «Il grande colpo può essere la trasformazione di uno zombie nero in un leader rivoluzionario» e aggiunse: «Io credo che il Che realmente viva dopo tutto». L’eroe del calcio Maradona mostrava l’emblematico tatuaggio del Che sul suo braccio destro durante un viaggio in cui incontrò Hugo Chavez in Venezuela. A Stavropol nella Russia Meridionale, dimostranti che chiedevano miglioramenti sociali occuparono la piazza centrale con la bandiera del Che. A San Francisco, la City Lights Books, la leggendaria casa di letteratura beat, offre ai frequentatori della sezione dedicata all’America Latina metà dello spazio ai libri sul Che. Josè Luis Montoya, un ufficiale di polizia messicano che combatte il narcotraffico a Mexicali, indossa una fascia alla fronte con l’immagine del Che perché lo fa sentire più forte. Al campo rifugiati di Dheisheh in Palestina, i poster del Che adornano un muro dedicato all’Intifada. Un mercato domenicale dedicato alla vita sociale in Sidney, Australia, organizza tre tipi di party, dedicati ad Alvar Aalto, Richard Branson e Che Guevara. Leung Kwok-hung, il ribelle eletto all’assemblea legislativa di Hong Kong, contesta Pechino indossando una maglietta del Che. In Brasile Frei Betto, consigliere del Presidente Lula per il programma «Fame Zero», sostiene che «noi dovremmo dedicare meno attenzione a Trotzky e più a Che Guevara». E alla famosa cerimonia dell’Accademy Awards, Carlos Santana e Antonio Banderas eseguirono i temi musicali dei Diari della Motocicletta, mentre il primo si esibiva con la maglietta del Che e un crocifisso. Le manifestazioni del nuovo culto del Che sono ovunque. Ancora una volta il mito colpisce gente la cui causa per lo più rappresenta l’esatto opposto di ciò che Che Guevara era.

Nessun essere umano è senza qualche qualità positiva. Nel caso di Che Guevara queste qualità possono aiutarci a misurare il gap che separa la realtà dal mito. La sua onestà (ovvero parziale onestà) lo spinse a lasciare alcune testimonianze scritte delle sue crudeltà, compreso quelle orribili, sebbene non le peggiori. Il suo coraggio, ciò che Castro descrisse come «il suo modo, in ogni difficile e pericoloso momento, di fare la più difficile e pericolosa cosa» comportava che non si assunse la piena responsabilità per l’inferno di Cuba. Il mito può dirci riguardo un periodo storico quanto la realtà. E così grazie alle sue proprie testimonianze del suo pensiero e delle sue gesta, e grazie anche alla sua prematura dipartita, possiamo comprendere i molti inganni.

Guevara poteva essere attratto dall’idea della sua morte, ma era molto più attratto dall’idea della morte degli altri. Nell’aprile del 1967, parlando delle sue esperienze, egli riassunse le sue idee omicide di giustizia nel suo Messaggio alla Tricontinentale: «Odio come elemento di lotta, un inflessibile odio per il nemico, che spinge l’essere umano oltre i suoi limiti, facendo di lui una effettiva, violenta, selettiva macchina di uccisione a sangue freddo». I suoi primi scritti sono pieni di questa retorica e ideologica violenza. Sebbene la sua precedente fidanzata Chichina Ferreyra dubiti che la versione originale dei Diari della Motocicletta contenga l’affermazione: «Io sento le mie narici dilatate assaporando l’odore acre della polvere da sparo e del sangue del nemico», Guevara condivideva con Granado in quel periodo giovanile questa esclamazione: «Rivoluzione senza sparare un colpo? Tu sei pazzo». Un’altra volta il giovane bohemien sembrava incapace di distinguere l’apparenza della morte nello spettacolo e la tragedia delle vittime della rivoluzione. In una lettera scritta in Guatemala nel 1954 a sua madre, dove egli fu testimone del rovesciamento del governo rivoluzionario di Jacob Arbenz, scrisse: «Era tutto un divertimento, le bombe, i discorsi, e le altre distrazioni per rompere la monotonia che stavo vivendo».

L’attenzione di Guevara quando viaggiava con Castro dal Messico a Cuba a bordo del Granma, era su una frase in una lettera alla moglie che scrisse il 28 gennaio 1957, non molto dopo lo sbarco, che fu pubblicata in un suo libro, Ernesto: una memoria del Che Guevara nella Sierra Maestra: «Qui nella giungla cubana vivo e assetato di sangue». Questa mentalità era stata rinforzata dalla convinzione che Arbenz aveva perso il potere perché non era riuscito a giustiziare i suoi potenziali nemici. In una precedente lettera alla sua ex-fidanzata Tita Infante aveva osservato che «se ci fosse stata qualche esecuzione, il governo avrebbe mantenuto la sua capacità di riprendersi». È una notevole sorpresa che durante la lotta armata contro Batista, e dopo il trionfale ingresso a L’Avana, Guevara assassinò o supervisionò l’esecuzione dopo processi sommari di una gran quantità di persone, provati nemici, sospetti nemici, e quelli che avevano avuto la disgrazia di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Nel gennaio 1957 come indica il suo diario della Sierra Maestra, Guevara spara a Eutimio Guerra perché sospettava che passasse informazioni: «Io chiusi il problema con una pistola calibro trentadue nel lato destro del suo cervello… Le sue cose erano ora mie». Successivamente sparò a Aristidio, un contadino che esprimeva il suo frequente desiderio di lasciare il movimento ribelle. Mentre si domandava se l’ucciso «era realmente colpevole da meritare la morte».

Luis Guardia e Pedro Corzo, due ricercatori della Florida che stanno lavorando a un documentario su Guevara, hanno ottenuto la testimonianza di Jaime Costa Vàzquez, un ex-comandante dell’esercito rivoluzionario conosciuto come «El Catalàn», che riteneva che le numerose fucilazioni attribuite a Ramiro Valdés, futuro Ministro degli Interni di Cuba, fossero diretta responsabilità di Guevara, in quanto sulle montagne Valdés era sotto i suoi ordini. «Se sei in dubbio, uccidilo» furono le istruzioni del Che. Alla vigilia della vittoria, secondo Costa, il Che ordinò l’esecuzione di un paio di dozzine di persone in Santa Clara, nella parte centrale di Cuba, dove la sua colonna era andata in azione per l’assalto finale dell’isola. Alcuni di loro vennero uccisi in un hotel, come Marcelo Fernàndes-Zayas; un altro precedente rivoluzionario che successivamente divenne giornalista, ha scritto, aggiungendo che fra i giustiziati, conosciuti come casquitos, c’erano contadini che si erano uniti all’esercito semplicemente per sfuggire alla disoccupazione. Ma la «macchina d’uccisione a sangue freddo» non mostrava tutto il suo rigore fino a che, immediatamente dopo il collasso del regime di Batista, Castro non gli conferì l’incarico di dirigere la prigione di La Cabaña. Castro ebbe buon occhio nella scelta della persona giusta a difendere la rivoluzione contro le possibili infezioni. San Carlos de La Cabaña era una fortezza in pietra usata per difendere L’Avana contro i pirati inglesi del XVIII secolo, successivamente divenne una caserma. In un modo che ricordava Lavrenti Beria, Guevara la diresse durante la prima metà del 1959, in uno dei periodi più oscuri della rivoluzione. José Vilasuso, un avvocato e professore della Università Interamericana di Bayamon a Puerto Rico, che apparteneva all’organizzazione del processo mi disse recentemente che: «Il Che era un componente della Comisiòn Depuradora. Il procedimento era conforme alla legge della Sierra: c’era una corte militare e la strategia del Che era che noi dovevamo agire con convinzione, intendendo che gli imputati erano tutti assassini e il modo di procedere rivoluzionario doveva essere implacabile. Il mio diretto superiore era Miguel Duque Estrada. Il mio compito era di gestire i documenti prima che fossero mandati al Ministero. Le esecuzioni ebbero luogo da lunedì a venerdì, nel cuore della notte, subito dopo che la sentenza era stata emanata e automaticamente confermata in appello. Nelle più orribili notti, ricordo sette uomini giustiziati».

Javier Arzuaga, un cappellano basco, che diede conforto ai condannati a morte, e personalmente testimone di dozzine di esecuzioni, mi parlò recentemente nella sua abitazione a Puerto Rico. Un precedente prete cattolico, ora settantacinquenne, che si definì «più vicino a Leonard Boff e alla Teologia della Liberazione che al precedente Cardinale Ratzinger» sottolineò che «c’erano circa ottocento prigionieri in uno spazio adatto per non più di trecento persone: personale militare e di polizia di Batista, alcuni giornalisti, alcuni uomini d’affari e commercianti. Il tribunale rivoluzionario era composto da uomini della milizia. Che Guevara presidiava la corte d’appello. Egli non modificò mai una sentenza. Io visitai quelli del braccio della morte. Girava la voce che io ipnotizzavo i prigionieri perché rimanessero calmi, così il Che ordinò che io fossi presente alle esecuzioni. Dopo che io lasciai l’incarico a maggio, vennero giustiziate molte più persone, ma io personalmente fui testimone di cinquantacinque esecuzioni. C’era un Americano, Herman Marks, che dava l’idea di un criminale. Noi lo chiamavamo “Il Macellaio” perché godeva nel dare l’ordine di sparare. Io supplicai molte volte il Che a nome dei prigionieri. Ricordo particolarmente il caso di Ariel Lima, un ragazzo. Il Che non si mosse. Né lo fece Fidel a cui andai a fare visita. Fui così traumatizzato che alla fine di maggio di quell’anno mi fu ordinato di lasciare il villaggio di Casa Blanca dove si trovava La Cabaña e dove dicevo messa da tre anni. Andai in Messico per cure. Il giorno che andai via, il Che mi disse che noi tentammo di modificare le opinioni dell’altro a vicenda ma senza risultato. Le sue ultime parole furono: “Quando noi ci toglieremo la maschera ci scopriremo nemici”».

Quante persone furono uccise a La Cabaña? Pedro Corzo ci propone il dato di circa 200, simile a quello fornito da Armando Lago, un professore di economia in pensione che aveva compilato una lista di 179 nomi come parte di uno studio di otto anni sulle esecuzioni a Cuba. Vilasuso mi disse che 400 persone erano state giustiziate fra gennaio e la fine di giugno del 1959 (al momento in cui il Che cessò di dirigere La Cabaña). Telegrammi segreti mandati dall’Ambasciata Americana a L’Avana al Dipartimento di Stato a Washington parlavano di «oltre 500». Secondo Jorge Castañeda, uno dei biografi di Che Guevara, un Cattolico Basco simpatizzante della rivoluzione, padre Iñaki de Aspiazù parlò di 700 vittime. Félix Rodriguez, un agente della CIA che era parte del team incaricato della caccia a Guevara in Bolivia, mi disse che affrontò la questione del Che dopo la sua cattura, circa «2.000» esecuzioni di cui era responsabile durante la sua vita. «Egli disse che erano agenti della CIA e non fornivano dati», Rodriguez richiamò. Il più alto dato potrebbe includere le esecuzioni che ebbero luogo nei mesi successivi al congedo del Che da La Cabaña. Ritornando a Carlos Santana e al suo Che. In una lettera aperta pubblicata da «El Nuevo Herald» il 31 marzo di quest’anno, il grande jazzista Paquito De Rivera criticò Santana per il suo abito utilizzato per l’Oscar e aggiunse: «Uno di quei Cubani [a La Cabaña] era mio cugino Bebo, che fu imprigionato proprio per essere Cristiano. Egli mi raccontò con infinita amarezza come poteva sentire dalla sua cella all’alba le esecuzioni senza processo dei molti che morirono gridando “Lunga vita a Cristo Re”».

Il desiderio di potere del Che aveva altri mezzi di esprimersi oltre all’assassinio. La contraddizione fra la sua passione per i viaggi, una protesta di sorta contro i limiti dello Stato-Nazione, e il suo impulso di creare uno Stato schiavistico è sorprendente. Scrivendo di Pedro Valdivia, il conquistatore del Cile, Guevara afferma: «Egli apparteneva alla speciale classe di uomini, in cui il desiderio di potere senza limiti è così estremo che qualsiasi sacrificio per ottenerlo sembra naturale». Egli sembrava descrivere se stesso. Ad ogni passo della sua vita adulta, la sua megalomania si manifestava nella potente spinta a prendere il controllo sulla vita e i beni della gente, e abolire la loro libera volontà.

Nel 1958, dopo la presa della città di Sancti Spiritus, Guevara tentò senza successo di imporre una specie di sharia, regolando le relazioni fra uomo e donna, l’uso dell’alcool, e il gioco d’azzardo, un puritanesimo non esattamente caratteristico del suo tipo di vita. Inoltre Guevara ordinò ai suoi uomini di derubare le banche, una decisione che giustificò in una lettera del novembre di quell’anno a Enrique Oltuski, un gregario, «la lotta delle masse si accorda con il rubare alle banche perché nessuna di loro ha un penny loro proprio». Questa idea di rivoluzione come licenza di riallocare le proprietà si accordava a quella marxista puritana di divenire emigrante dopo il trionfo della rivoluzione.

La spinta a dispossessare gli altri delle loro proprietà e di rivendicare la proprietà di territori di altri era tipico dell’idea di potere dispotico di Guevara. Nelle sue memorie, il leader Gamal Abdel Nasser ricorda che Guevara gli chiese quanta gente avesse lasciato il suo Paese a causa della riforma agraria. Quando Nasser replicò che nessuno era fuggito, il Che rispose arrabbiato che il modo di misurare la grandezza dei cambiamenti è dato dal numero di persone «che avvertono che non c’è più posto per loro nella nuova società». Questo feroce istinto raggiunse il picco nel 1965, quando parlò del «Nuovo Uomo» che lui e la sua rivoluzione avrebbero creato.

L’ossessione del controllo collettivista condusse il Che a collaborare alla formazione dell’apparato di sicurezza che fu costituito per soggiogare i sei e mezzo milioni d’abitanti di Cuba. Ai primi del 1959 una serie di incontri segreti ebbero luogo a Tararà vicino a L’Avana, il luogo dove il Che si ritirò per un breve periodo per motivi di salute. Lì i massimi leader, Castro compreso, progettarono lo Stato di polizia cubano. Ramiro Valdés, un subordinato del Che durante il periodo della guerriglia, fu posto a capo del G-2, un’organizzazione modellata su quella della Ceka. Angel Cuitah, un veterano della guerra civile spagnola, inviato dai Sovietici, e legato a Ramòn Mercader, l’assassinio di Trotzky, e successivamente amico del Che, giocò un ruolo importante nell’organizzazione del sistema, insieme con Luis Alberto Lavaindera, che aveva servito il capo a La Cabaña. Guevara stesso diresse il G-6, il gruppo incaricato dell’indottrinamento ideologico delle forze armate. L’invasione della Baia dei Porci sostenuta dagli Americani nell’aprile del 1961 divenne l’occasione perfetta per consolidare il nuovo Stato di polizia con la cattura di decine di migliaia di Cubani e una nuova serie di esecuzioni. Come Che Guevara stesso disse all’ambasciatore sovietico Server Kudriavtsev, i contro-rivoluzionari mai potranno «alzare le loro teste di nuovo».

«Contro-rivoluzionario» è il termine che era adoperato con chiunque si allontanava dal dogma. Era il sinonimo comunista di «eretico». I campi di concentramento erano un modo impiegato dal potere dogmatico per sopprimere il dissenso. La storia attribuisce al generale spagnolo Valeriano Weyler, capitano-generale di Cuba alla fine del XIX secolo, il primo uso del termine «concentrazione» per descrivere la politica di ammassamento di potenziali oppositori, in tal caso sostenitori del movimento indipendentista, con filo spinato e recinti. I rivoluzionari di Cuba un secolo e mezzo più tardi riprendevano quella tipica tradizione. All’inizio la rivoluzione mobilitava i volontari a costruire scuole e a lavorare nei porti, piantagioni e fabbriche, con tante piacevoli foto di Che scaricatore, Che tagliatore di canne, Che sarto. Non molto tempo dopo il lavoro volontario divenne un po’ meno volontario: il primo campo di lavoro forzato, Guanahacabibes, fu installato nella parte occidentale di Cuba alla fine del 1960. Questo è come il Che spiegava il metodo del confinamento: «[Noi] mandiamo a Guanahacabibes soltanto quei casi dubbi dove noi non siamo sicuri che bisognerebbe mandare la gente in prigione… la gente che ha commesso crimini più o meno gravi contro la morale rivoluzionaria… è un duro lavoro, non un brutale lavoro, piuttosto le condizioni di lavoro sono dure».

Questo campo era il precursore del definitivo confinamento sistematico iniziato nel 1965 nella provincia di Camagüey per dissidenti, omosessuali, vittime dell’AIDS, Cattolici, Testimoni di Geova, preti afro-cubani, e altri, sotto la denominazione di «Unidades Militares de Ayuda a la Producciòn» («Unità Militari di Aiuto alla Produzione»). Ammassato in corriere e camion, il «disadattato» viene trasportato con le armi puntate addosso ai campi di concentramento organizzati a Guanahacabibes. Alcuni non ritorneranno mai, altri vengono violentati, picchiati o mutilati; e la maggior parte traumatizzati a vita, come Néstor Almendros mostrato in un documentario venti anni fa.

Così «Time magazine» avrebbe colto nel segno nell’agosto 1960 quando descrisse l’organizzazione del lavoro della rivoluzione con una storia di copertina con protagonista Che Guevara come «cervello», Fidel Castro come «cuore» e Raùl Castro come «pugno». Ma la immagine esprimeva il ruolo cruciale di Guevara come bastione del totalitarismo. Il Che era in qualche modo un improbabile candidato di purezza ideologica, dato il suo spirito bohemien, ma durante gli anni del tirocinio in Messico e nel seguente periodo della lotta armata a Cuba, egli emerse come l’ideologo comunista infatuato dell’Unione Sovietica; molti gli attriti con Castro e altri, essenzialmente più opportunisti, favorevoli a qualsiasi mezzo necessario per la conquista del potere. Quando i cosiddetti rivoluzionari vennero arrestati nel 1956, Guevara fu il solo ad ammettere che era comunista e stava studiando il russo. Egli parlò apertamente delle sue relazioni con Nikolai Leonov dell’Ambasciata Sovietica. Durante la lotta armata a Cuba forgiò un’alleanza con il Partito Socialista Popolare (il partito comunista dell’isola) e con Carlo Rafael Rodrìguez, personaggio chiave della conversione del regime di Castro verso il comunismo.

Questa fanatica disposizione fece del Che il numero uno della «sovietizzazione» della rivoluzione che era stata vantata ripetutamente per il suo carattere indipendente. Non appena i barbudos arrivarono al potere, Guevara prese parte ai negoziati con Anastas Mikoyan, il Ministro sovietico che visitò Cuba. Egli confidava in ulteriori negoziati sovietico-cubani durante una visita a Mosca alla fine del 1960. Essa faceva parte di un lungo viaggio la cui maggiore impressione fu la Corea del Nord di Kim II Sung. Il secondo viaggio di Guevara in Russia nell’agosto 1962 era anche più significativo, perché confermò il trattato che faceva di Cuba la testa di ponte nucleare dell’Unione Sovietica. Egli incontrò Kruscev a Yalta per definire i dettagli di un’operazione che era già iniziata, e riguardava l’introduzione di quarantadue missili sovietici, metà dei quali armati con testata nucleare, rampe di lancio e circa quarantaduemila soldati. Dopo aver sollecitato gli alleati sovietici sulla minaccia che gli Stati Uniti potevano scoprire ciò che stava accadendo, Guevara ottenne assicurazioni che la marina sovietica sarebbe intervenuta, ovvero in altri termini, che Mosca era pronta per la guerra. Secondo la biografia di Guevara scritta da Philippe Gavi, il rivoluzionario si era vantato che «questo Paese vuole rischiare tutto in una guerra atomica di inimmaginabile distruttività per difendere un principio». Appena dopo la fine della crisi dei missili a Cuba, finita con il rinnegamento da parte di Kruscev della promessa fatta a Yalta e la negoziazione di un accordo con gli Stati Uniti alle spalle di Castro che includeva la rimozione dei missili in Turchia, il dittatore cubano disse a un quotidiano britannico: «Se i missili fossero rimasti, noi li avremmo usati e lanciati tutti contro il cuore degli Stati Uniti, New York compresa, per la nostra difesa contro un’aggressione». E un paio d’anni più tardi, alle Nazioni Unite, sosteneva: «Come marxisti noi abbiamo sostenuto che la coesistenza pacifica fra le nazioni non include la coesistenza fra sfruttatori e sfruttati».

Guevara si allontanò dall’Unione Sovietica negli ultimi anni della sua vita. Fece tale scelta per ragioni sbagliate, biasimando Mosca per essere troppo morbida ideologicamente e diplomaticamente, per avere fatto troppe concessioni, diversamente dalla Cina maoista, che arrivò a vedere come un paradiso di ortodossia. Nell’ottobre 1964, in una memoria scritta da Oleg Daroussenkov, un funzionario sovietico vicino a lui, cita Guevara affermando: «Noi chiedemmo le armi ai Cecoslovacchi, ed essi rifiutarono. Poi noi chiedemmo ai Cinesi; e ci risposero di sì nel giro di pochi giorni, ma non ci soddisfecero, affermando che uno non vende le armi a un amico».

Il grande rivoluzionario aveva una chance di porre in pratica la sua visione economica, la sua idea di giustizia sociale, come capo della Banca Nazionale di Cuba e del Dipartimento dell’Industria dell’Istituto Nazionale di Riforma Agraria alla fine del 1959, e, a partire dagli inizi del 1961, come Ministro dell’Industria. Il periodo in cui Guevara ebbe la responsabilità di gran parte dell’economia cubana, l’isola vide il quasi collasso della produzione di zucchero, il fallimento dell’industrializzazione, e l’introduzione del razionamento, tutto ciò in quello che era stato uno dei quattro Paesi dell’America Latina con maggiore successo economico negli anni precedenti alla dittatura di Batista.

Il suo periodo di capo della Banca Nazionale, durante il quale stampò le banconote firmate «Che» era stato sintetizzato dal suo collega Ernesto Betancourt: «[Egli] era ignorante dei più elementari principi economici». Le capacità di comprensione di Guevara riguardo il mondo economico furono espresse con forza nel 1961, alla conferenza mondiale in Uruguay, dove egli predisse un tasso di crescita per Cuba del 10% «senza alcun timore» e a partire dal 1980 un reddito pro-capite maggiore di quello «degli Stati Uniti di oggi». Infatti nel 1997, 30° anniversario della sua morte, i Cubani possono disporre di cinque libbre di riso e una di fagioli al mese, quattro once di carne due volte l’anno, quattro once di soia per settimana, e quattro uova al mese. La riforma agraria tolse le terre ai ricchi ma per darle ai burocrati, non ai contadini. Il relativo decreto venne scritto nell’abitazione del Che. In nome della diversificazione economica l’area coltivata fu ridotta, e la manodopera distolta in altre attività. Il risultato fu che fra il 1961 e il 1963 i raccolti diminuirono della metà, ridotti a soli 3,8 milioni di tonnellate. Era il sacrificio giustificato dai progressi dell’industrializzazione? Sfortunatamente Cuba non aveva materie prime per l’industria pesante, e come conseguenza della redistribuzione rivoluzionaria, non disponeva di moneta forte per comprarle all’estero o beni strategici. Dal 1961 Guevara dava spiegazioni imbarazzanti ai lavoratori: «I nostri compagni tecnici nelle aziende hanno fatto un dentifricio… che è buono come il precedente; pulisce alla stessa maniera, sebbene dopo poco diventa duro come pietra». Dal 1963 tutte le speranze dell’industrializzazione di Cuba vennero abbandonate, e la rivoluzione accettò il suo ruolo di fornitore coloniale di zucchero al blocco sovietico in cambio di petrolio per coprire le sue necessità o per essere destinato alla rivendita ad altri Paesi. Per i successivi tre decenni, Cuba sopravvisse con il sussidio sovietico di sessantacinque-cento miliardi di dollari. Avendo fallito come eroe di giustizia sociale, Guevara meritò un posto nei libri di storia come genio della guerriglia? Il suo maggiore successo militare nella lotta contro Batista, la presa della città di Santa Clara dopo un assalto a un treno di rifornimenti pesanti, è oggetto di controversie. Numerose testimonianze indicano che il comandante del treno si arrese prontamente, forse a seguito di corruzione. Gutiérrez Menoyo, che diresse un altro gruppo di guerriglieri in un’altra zona, è fra quelli che svalutano il ruolo della vittoria di Guevara. Subito dopo il trionfo della rivoluzione, Guevara organizzò gruppi guerriglieri in Nicaragua, nella Repubblica Domenicana, a Panama e Haiti, tutti sconfitti. Nel 1964 egli inviò il rivoluzionario argentino Jorge Ricardo Masetti verso la morte persuadendolo a lanciare un attacco al suo Paese nativo dalla Bolivia, subito dopo che la democrazia rappresentativa era stata restaurata. Particolarmente disastrosa fu la spedizione in Congo del 1965. Guevara affiancava due ribelli, Robert Mulele nella zona occidentale e Laurent Kabila nella parte orientale, contro il tergibile governo congolese sostenuto dagli Stati Uniti così come dal Sud Africa e da mercenari cubani in esilio. Mulele aveva occupato Stanleyville per un breve periodo. Durante il suo regno del terrore, come V. S. Naipaul ha scritto, eliminò fisicamente tutte le persone in grado di leggere e che portavano la cravatta. Come l’altro alleato, era indolente e corrotto; ma il mondo scoprì negli anni Novanta che era anche una macchina umana di morte. In tutti i casi Guevara trascorse il 1965 aiutando i ribelli della zona orientale prima di fuggire dal Paese ignominiosamente. Poco dopo Mobutu arrivò al potere e installò una tirannia pluridecennale. Anche in America Latina, dall’Argentina al Perù, le rivoluzioni ispirate al Che diedero come risultato il rafforzamento del brutale militarismo per anni. In Bolivia, il Che fu sconfitto di nuovo e per l’ultima volta. Egli non comprese la situazione locale. C’era stata una riforma agraria anni prima, il governo aveva rispettato molte delle istituzioni comunitarie dei contadini; mentre l’esercito si sentiva vicino agli Stati Uniti nonostante il suo nazionalismo. «Le masse contadine non ci aiutano per niente» fu la malinconica conclusione del suo Diario Boliviano. Ancora peggio, Mario Monje, il leader comunista locale, che non amava la guerriglia, dopo essere stato umiliato alle elezioni, spinse Guevara in una zona non difendibile del Sud-Est del Paese. Le circostanze della cattura del Che alle gole del Yuro poco dopo l’incontro con l’intellettuale francese Regis Debray e il pittore argentino Ciro Bustos, entrambi catturati come lasciarono il campo, erano, come il gruppo principale della spedizione, un affare da sognatori.

Guevara fu certamente baldo e coraggioso, deciso a organizzare la vita in modo militare nei territori sotto il suo controllo, ma non era il generale Giap. Il suo libro Guerra di guerriglia insegna che le forze popolari possono battere un esercito, che non è necessario aspettare le giuste condizioni perché un «foco» insurrezionale (o un piccolo gruppo di rivoluzionari) possa avere successo, e che la lotta deve aver luogo principalmente nelle campagne. Nelle sue prescrizioni sulla guerriglia riserva alle donne il ruolo di cuoche e infermiere. In realtà l’esercito di Batista non era un vero esercito, ma un corrotto gruppo di teppisti senza alcuna motivazione e senza molta organizzazione; e i «focos» della guerriglia, ad eccezione del Nicaragua, finirono tutti nel nulla; mentre l’America Latina è diventata al 70% un Paese urbano negli ultimi quarant’anni. Anche da questo punto di vista il Che Guevara fu un uomo insensibile e incompetente.

Nell’ultimo periodo del XIX secolo, l’Argentina fu il secondo Paese per tasso di crescita nel mondo. Successivamente agli anni Novanta di quel secolo, il salario reale di un operaio argentino era maggiore di quello svizzero, tedesco e francese. Dal 1928 il Paese fu il dodicesimo per reddito pro-capite a livello mondiale. Questo risultato che le generazioni successive cancellarono, fu in larga parte dovuto a Juan Bautista Alberdi. Come Guevara, ad Alberdi piaceva viaggiare: percorse le pampas e i deserti dal Nord al Sud, all’età di quattordici anni, sempre tornando a Buenos Aires. Come Guevara, Alberdi si oppose a un tiranno, Juan Manuel Rosas. Come Guevara, Alberdi ebbe una chance di influenzare un leader rivoluzionario al potere, Justo José de Urquiza, che portò alla caduta di Rosas nel 1852. E sempre come Guevara, Alberdi rappresentò il nuovo governo nei suoi viaggi intorno al mondo, e morì all’estero. Ma vi erano anche differenze fra il vecchio e il nuovo personaggio caro alla Sinistra, Alberdi non uccise nemmeno una mosca. Il suo libro, Bases y puntos de partida para la organizaciòn de la Repùblica Argentina, fu il fondamento della Costituzione del 1853 che limitò i poteri del governo, aprì ai commerci, incoraggiò l’immigrazione, garantì il diritto alla proprietà, con ciò inaugurando un periodo di settant’anni di eccezionale prosperità. Egli non interferì negli affari di altre nazioni, opponendosi alla guerra contro il Paraguay. La sua immagine non adorna la pancia di Mike Tyson.

Titolo originario:The Killing Machine: Che Guevara, from Communist to Capitalist BrandBy Alvaro Vargas LlosaIn «The New Republic»

Traduzione:Luciano Atticciati10915139_528911677248844_3025258829852369513_n

2,0 / 5
Grazie per aver votato!

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: