Il prezzo del petrolio ostaggio delle manovre imperialiste.

Il prezzo del petrolio sta interessando gli organi di informazione, i toni sono enfatici: catastrofe, tragico crollo e così via. Federico Rampini, in un articolo pubblicato domenica 14 dicembre su “La Repubblica”, descrive la diminuzione del prezzo del greggio, che è calato del 50% negli ultimi sei mesi, e del 10% nella seconda settimana di dicembre. Secondo Rampini, la caduta del prezzo del petrolio è provocata dal rallentamento della Cina e dalla recessione in Giappone, che si aggiungono alla stagnazione in Europa. La dinamica del prezzo del petrolio fa tanta paura perché, anche se è un fenomeno positivo per i paesi consumatori e importatori di petrolio come l’Italia, le sue cause sono nella recessione globale.

Ad una prima riflessione, la caduta del prezzo del petrolio dimostra il pressapochismo dei sostenitori dell’uscita dall’euro. Una delle ragioni per cui la diminuzione di prezzo non si è ancora trasmessa al prezzo alla pompa dei carburanti, è che il petrolio si paga in dollari, e in questi mesi il calo del prezzo del petrolio si è accompagnato al calo dell’euro rispetto al dollaro. Se al posto dell’euro ci fosse stata una moneta nazionale, nell’ipotesi dei sovranisti più suscettibile di svalutazione, il calo del prezzo alla pompa sarebbe stato ancora meno sensibile. Un’altra riflessione immediata, relativa alla sovrabbondanza dell’offerta di petrolio rispetto alla domanda, è che tutte le chiacchiere sul picco del petrolio si sono rivelate per quello che sono: un’arma propagandistica. Un’arma propagandistica per il nucleare, visto come alternativa ai combustibili fossili ormai in esaurimento, ed un’arma propagandistica per l’intervento dei paesi imperialistici in Medio Oriente, volti, oltre ad esportare la democrazia, a garantire i rifornimenti di materie prime.

L’interpretazione che Federico Rampini dà delle cause del prezzo del petrolio, ha comunque anch’essa un duplice risvolto propagandistico. Innanzi tutto l’oscillazione del prezzo del petrolio sotto l’azione della domanda e dell’offerta è la migliore dimostrazione dell’efficienza del libero mercato, mentre la contrazione della domanda inseguito alla recessione dell’economia mondiale è il principale argomento a sostegno delle politiche di austerità, portate avanti dai governi sotto la spinta delle organizzazioni sovranazionali.

In realtà la maggior parte del greggio non passa attraverso i mercati, ma viene prodotta dalle compagnie petrolifere sulla base di concessioni per lo sfruttamento degli idrocarburi. I paesi produttori non vendono, e le compagnie petrolifere non acquistano; quando ciò avviene, avviene soprattutto sulla base di contratti di fornitura, in cui i prezzi sono stabilitii n anticipo, e influenzati solo in minima parte dalle oscillazioni del mercato “libero”. Solo gli inguaribili apologeti del capitalismo possono vedere in tutto ciò la “mano invisibile”, che distribuisce equamente, prima o poi, costi e benefici.

Basta uscire dal cortile di casa, ed è possibile trovare interpretazioni diverse. Non c’è bisogno di immaginare complotti, la Spectre, e così via, basta leggere il Financial Times, ed un editorialista un po’ più serio del modesto Rampini, David Gardner, ci informa che per l’Arabia Saudita il prezzo del petrolio è un’arma politica, un’arma che viene usata sotto la spinta di un odio viscerale nei confronti dell’Iran sciita. L’articolo di Gardner mette in evidenza che è stata la decisione dell’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (OPEC), presa nella riunione del novembre scorso, di non ridurre la produzione ad accelerare la caduta del prezzo del greggio. Sempre in quest’articolo si sostiene che la decisione è stata presa sotto la spinta dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati del Golfo Persico. In altre parole, secondo Gardner, sul calo di prezzo del petrolio influiscono più le scelte di alcuni Governi delle oscillazioni del mercato.

A conferma di ciò, le previsioni della stessa OPEC sulla domanda di petrolio nel 2015 parlano di un aumento della domanda, che crescerà di 1,12 milioni di barili al giorno.

Resta da domandarsi se l’”odio viscerale” nei confronti degli sciiti sia veramente la molla che muove i monarchi del Golfo. La discesa dei prezzi del petrolio non si ripercuote solo sull’Iran, ma sta destabilizzando i conti del Venezuela, e sta avendo anche ripercussioni in Russia: il crollo del rublo è un sintomo che gli speculatori non credono che Mosca potrà onorare il proprio debito, in una fase di prezzo del petrolio (e quindi anche del gas, ad esso collegato) calante. La guerra del gas, adombrata dietro le vicende ucraine, si sta quindi arricchendo forse di nuove pagine. L’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo sono da sempre fedeli alleati dell’imperialismo anglo americano: è possibile che decisioni delicate, come quelle prese alla riunione dell’OPEC, siano adottate senza che il Dipartimento di Stato a Washington ne sia informato?

Comunque, qualunque sia il ruolo dei vari personaggi che intervengono in questa vicenda, è certo che il “libero mercato” e la “legge della domanda e dell’offerta” c’entrano come il cavolo a merenda; inoltre dobbiamo tenere ben distinti recessione e serrata mascherata, fatta per costringere il movimento dei lavoratori ad accettare le politiche governative. Infine, l’imperialismo è un fenomeno sociale con grandi contraddizioni, ed è ben lontano da un unico governo mondiale: la prima vittima della diminuzione del prezzo del petrolio è la nuova tecnologia, made in USA, dell’estrazione di petrolio attraverso la frantumazione delle rocce di scisto, spinta fuori mercato dai prezzi esorbitanti.

Ogni pezza che governi e capitalisti mettono a questo sistema barcollante non fa che peggiorare la situazione.

Pestrazione-petrolio-1508x706cubblicato sul n. 39 di Umanità Nova

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