I NEMICI DELLA LIBERTA’

Giovanna Caleffi e Camillo Berneri
Il 5 maggio prossimo ricorrerà il 79° anniversario dell’assassinio, per mano bolscevica, di Camillo Berneri e Francesco Barbieri, nella “settimana tragica” della Barcellona rivoluzionaria.
Quello che segue è l’articolo, appassionato, che scrisse la moglie di Berneri, Giovanna Caleffi, in occasione del ventesimo anniversario dei drammatici fatti, sulla rivista Volontà (anno X, numero 8 – maggio 1957, pagg. 466-473).
“È morto sotto il piombo degli assassini, nell’ombra. E da quell’ombra si diffonde una luce che si va facendo sempre più intensa, a misura che passano i giorni. Lo hanno ucciso perché era anarchico, perché voleva la libertà e lavorava per la libertà. La sua morte non è diversa da quella di Durruti o di Cieri, di De Rosa o di Angeloni, di Schirru o di Matteotti. Gli assassini con nomi diversi, sono sempre gli stessi. Nella guerra aperta, nell’agguato o nel cortile delle esecuzioni, sono le forze potenti di un mondo condannato a morte, che cercano di sopprimere i pionieri del mondo nuovo, che vive già nei presentimenti dei più, nella chiara coscienza delle avanguardie sociali, nelle realizzazioni più volte tentate e in quelle in atto della più recente storia spagnola.
La guerra indurisce i sentimenti. E non si può negare che, ormai, siamo in guerra. Pure, di fronte alla soppressione atroce di questa mente giovane e vigorosa su cui si basavano tante speranza nostre, di questa mente che s’era andata maturando nell’ascetismo della povertà e dello studio, e che al calore della rivoluzione stava arrivando al punto massimo di potenza, non possiamo fare a meno che il nostro dolore si traduca in amarezza e in indignazione.
Quest’assassinio commesso freddamente, giustificato come misura d’ordine pubblico, rivolta la nostra coscienza, ma rende anche più chiare le nostre idee e la nostra visione delle cose. I fatti di Barcellona, per quanto molti non se ne accorgono, aprono una nuova epoca nella tormentosa storia del proletariato” (Luce Fabbri, “Studi sociali”, Montevideo, 1937)
Così scriveva Luce Fabbri, subito dopo l’assassinio di Camillo Berneri, perpetrato, durante la settimana tragica di Barcellona, il 5 maggio 1937.
20 anni sono trascorsi da allora. A chi dovette attendere che gli anni passassero per accettare quella dolorosa realtà e continuò a sentirlo vivo, ispirandosi al suo pensiero ed al luminoso esempio della sua vita per trarne motivi di conforto e d’insegnamento per sé e per altri (questa modesta rivista è tutta pervasa dallo spirito di Camillo Berneri, anche se le mancano purtroppo, la robustezza del suo ingegno, la vigoria del suo pensiero e la sua profonda umanità); a chi comprese il valore della sua vita e della sua morte, par quasi impossibile che tanti anni siano passati, da quando la tragica notizia del suo assassinio gettò costernazione, dolore e collera fra i compagni del mondo intero.
Fu per tutti noi come se qualcosa si oscurasse per sempre: con la perdita di Camillo Berneri, un mondo luminoso, nato con gli avvenimenti della Spagna, crollava improvvisamente. La rivoluzione, quella rivoluzione alla quale Camillo Berneri era corso ad offrire i tesori del suo ingegno, del suo cuore, pronto a darle la sua stessa vita, si era divorata uno dei suoi figli migliori.
Sgomento, perplessità, disorientamento, amarezza e dolore ci afferrarono tutti: dai più intimi di Camillo ai suoi compagni di lotta, a tutti coloro che l’avevano conosciuto od avvicinato, perché conoscerlo significava essergli subito amico.
Ma, anche uomini onesti che non l’avevano conosciuto, furono profondamente feriti nella loro coscienza e quindi addolorati da un delitto che si spiegava solo con la volontà dei bolscevichi di colonizzare la Spagna e dalla necessità, quindi, per essi, di sopprimere tutti coloro che vi si opponevano.
Gli assassini, con nomi diversi, sono sempre gli stessi, dice Luce Fabbri. Ed è vero. Ma è pur vero che gli assassini di Sacco e Vanzetti, di Matteotti, dei fratelli Rosselli non potranno mai essere confusi nella storia con i giustizieri, gli alfieri della libertà. Essi portano ben visibile il marchio di assassino e non possono ingannare nessuno. Non fu così per gli assassini di Camillo Berneri, che vennero giustificati e difesi da un partito che si atteggiava e si atteggia tutt’ora, dopo tante atrocità e dopo aver dimostrato quale scempio sappia fare della libertà, ad apportatore di giustizia a gente che di giustizia è assetata.
In Europa, i fatti di Barcellona aprono una nuova epoca nella tormentosa storia del proletariato.
Ad aprire quella nuova epoca contribuì largamente l’azione di Camillo Berneri in Spagna, dove egli scrisse le sue più belle pagine di militante rivoluzionario, ed anche la sua morte. Anzi, il suo olocausto, chè egli ben sapeva il destino che l’aspettava, mettendosi al servizio della verità e della libertà.
Agli albori del 1937 vi erano state in Russia le mostruose epurazioni contro l’opposizione leninista-troskista. Gli anarchici (e particolarmente i russi che avevano dovuto fuggire le persecuzioni del regime bolscevico: Machno, Volin, Goldman, Fléchine, Shapirò ed altri) non erano più soli a denunciare il carattere ferocemente dittatoriale dello stalinismo. Andrè Gide, doveva ritrattare i suoi primi giudizi elogiativi sul governo russo, dopo una seconda visita nell’U.R.S.S. e degli scrittori come Silone, Koestler, con l’animo martoriato, abbandonavano il partito che era apparso loro come “una manifestazione del regime di dio in terra” dopo di aver scoperto quale abisso ci fosse “tra la propria visione di dio e la realtà dello Stato Comunista”. Però, fino alla guerra di Spagna, i giudizi sul regime in Russia erano fatti in base a fatti e dati che appartenevano ad un mondo tanto lontano da noi, dal quale, per la stessa cortina che lo divideva dall’Occidente, trapelavano poche e non chiare informazioni.
Molti onesti, tormentati sempre dagli scrupoli, non volevano pronunciarsi in base a così scarse notizie e su di un regime poco conosciuto di un popolo anch’esso poso conosciuto. E l’abile propaganda dei P.C. occidentali, l’astuta dialettica di tutti i servi del Cremlino, avevano facile gioco nel presentare quelle notizie esagerate, o false o a giustificare tutte le purghe ed eliminazioni con le “confessioni” degli stessi accusati e condannati.
Con i fatti di maggio di Barcellona, le cose cambiavano. Il processo contro lo stalinismo trovava ormai numerosi e gravi motivi di accusa anche in Spagna.
Questo paese era, dal 19 luglio 1936, il teatro di un’immensa lotta in cui il popolo difendeva con entusiasmo e coraggio la sua libertà contro il pugno di generali ribelli che si era sollevato contro il governo legale del suo paese. A quella grande lotta partecipavano uomini sinceramente democratici, venuti un po’ da tutte le parti del mondo: lavoratori nella maggior parte, ma anche giornalisti, intellettuali e scrittori come Orwell, Koestler, Kaminski ed altri.
Il P.C. spagnolo, quasi inesistente allo scoppio della rivoluzione, crebbe smisuratamente e rapidamente grazie agli aiuti in armi e viveri che la Russia aveva inviato. (E non dimentichiamolo mai: dietro invio anticipato dell’oro della banca di Spagna, oro che è rimasto in Russia e che continua ad essere motivo di “compromessi” tra i padroni della Russia ed il padrone della Spagna. Ed è prevedibile che tra uomini della stessa razza, finiranno per intendersi). Quest’aiuto russo scatenò l’entusiasmo di un popolo impegnato in una guerra difficile ed abbandonato da tutti i governi del mondo (ad eccezione di quello del Messico). Ne beneficiò il partito comunista spagnolo che diventò un partito forte di uomini al servizio di Mosca, di mezzi e potè così instaurare la sua egemonia nella centrale sindacale U.C.T., nel partito socialista e in seno ai fronti ed alleanze che si erano costituiti.
Stalin aveva saputo scegliere il momento buono per aiutare la Spagna ed imporre le sue condizioni.
Non si parlò più di rivoluzione sociale che doveva trasformare radicalmente la Spagna, così come era stata iniziata spontaneamente dal popolo, ma di una instaurazione di una repubblica democratica. Tutti gli elementi retrogradi, conservatori della Spagna poterono riprendere fiato.
Il deputato comunista Hernandez, dichiarava a Madrid (8 agosto 1936) che dopo la vittoria su Franco, “gli anarchici saranno presto messi a ragione”. E la Pravda (17 dicembre 1936) scriveva: “In quanto alla Catalogna, è cominciata la pulizia degli elementi troskisti e anarco-sindacalisti; opera che sarà condotta con la stessa energia con la quale si condusse nell’U.R.S.S.”.
La coalizione bolscevica-democratica-radicale spagnola si era costituita contro il popolo spagnolo per cancellare le conquiste che questi aveva già saputo fare e per impedirgli di realizzarne altre.
In quell’ambiente rovente, confuso, infido, pieno di incognite e gravido di conseguenze funeste, Camillo Berneri getta un angoscioso grido di allarme. Le sue parole hanno un accento, un’autorità nuovi, una sicurezza che stupisce tutti coloro che conoscono la modestia di Camillo, il tormento dei suoi dubbi. Sono le parole di uno che è pronto a dare la vita pur di poter dire la verità.
Per 25 anni ha atteso quel momento, fortificandosi nello studio, nella povertà dell’esilio, nella solitudine del carcere, nelle sue peregrinazioni di uomo perseguitato e cacciato da tutte le polizie del mondo. Ha raggiunto la sicurezza di sé: il trionfo della verità vale il sacrificio della vita.
Con la forza che gli viene dalla chiara consapevolezza delle proprie responsabilità di rivoluzionario egli parla.
“Persuaso che la rivoluzione spagnola si avvicini precipitosamente ad una svolta pericolosa, impugno la penna come impugnerei il revolver od il fucile…”
Conciliare le “necessità” della guerra, la “volontà” della rivoluzione sociale e le “aspirazioni” dell’anarchismo: ecco il problema. Ne dipendono la vittoria militare dell’antifascismo, la creazione di un’economia nuova redimente la Spagna, la valorizzazione del pensiero e dell’azione anarchici. Tre grandi cose che, meritando qualsiasi sacrificio, impongono il dovere del coraggio di dire interamente il proprio pensiero”. (“Guerra di classe”, Barcellona, 5 novembre 1936)
Non risparmia le critiche agli anarchici spagnoli che partecipano al governo. Ma quanto amore è in quelle critiche! Come egli si sente ormai legato al destino del popolo spagnolo.
“Il ricatto: o Madrid o Franco ha paralizzato l’anarchismo spagnolo. Oggi Barcellona è tra Burgos, Roma, Berlino, Madrid e Mosca. Un assedio.
…Un accumularsi di nuvole nere all’orizzonte e una nebbia che acceca. Aguzziamo lo sguardo e teniamo il timone con mano d’acciaio. Presa tra i Prussiani e Versailles, la Comune accese un incendio che ancora illumina il mondo. Tra Burgos e Madrid vi è Barcellona. Ci pensino i Godet di Mosca!”. (“Guerra di classe”, Barcellona, 16 dicembre 1936)
È una voce clamante nel deserto? I suoi disperati appelli sono intesi dagli anarchici spagnoli che hanno responsabilità maggiori in quello che sta accadendo?
Per essere certo di essere ascoltato, si rivolge direttamente ad uno di essi che ha autorità morale presso i suoi compagni, a Federica Montseny, con quella famosa lettera che segnò la sua condanna a morte.
In quello scritto egli cerca di consigliare alcune linee di condotta, richiamando gli anarchici al senso di responsabilità che essi hanno, denunciando gli errori e le debolezze della lotta politica governativa, e la necessità di pronunciarsi sulla politica dei comunisti in Russia ed in Spagna.
E conclude:
“Il dilemma: guerra o rivoluzione, non ha più senso. Il dilemma è uno solo: o la vittoria su Franco mediante la guerra rivoluzionaria o la sconfitta. Il problema, per te per gli altri compagni, è di scegliere tra la Versailles di Thiers e la Parigi della Comune, prima che Thiers e Bismarck facciano l’union sacrée. A te la risposta, poiché tu sei la ‘fiaccola sotto il moggio’”. (“Guerra di classe”, Barcellona, 14 aprile 1937)
La rivoluzione? Ma è proprio quello che non vogliono a nessun costo i comunisti, i partiti esistenti in Spagna, le cosiddette democrazie europee e Stalin.
I suoi disperati appelli se non furono accolti dai suoi compagni, attirarono, però, l’attenzione dei nemici della libertà.
Il console russo a Barcellona, Antonov Ovscenko, intervenne presso il governo di Catalogna, per chiedergli chi era questo Berneri che osava parlare un tale linguaggio e formulare tali critiche. Con la sicurezza e lo zelo di tutti i servitori di Mosca (il che non gli risparmiò più tardi di essere eliminato dai suoi padroni) affermò che “non poteva trattarsi che di un agente provocatore o di un imbecille”.
La Pravda aveva pubblicato, commentandolo aspramente, il suo articolo Una svolta pericolosa: attenzione!, in cui Berneri rivendicava il diritto di dire la verità. Ma dire la verità è il più grande delitto per coloro che della menzogna ne hanno fatto un principio, un cardine del loro sistema.
Il servidorame della dittatura bolscevica in Spagna, approfittò, dopo di averlo preparato, dell’attacco violento scatenato dalle forze di polizia contro le organizzazioni operaie e specialmente contro quelle della C.N.T. che controllavano la centrale telefonica, per sopprimere, con il classico metodo delle esecuzioni della Ghepeu, Camillo Berneri, Francesco Barbieri e centinaia altri di militanti anarchici e del P.O.U.M.
Da allora i morti delle giornate di maggio, e l’assassinio di Camillo Berneri, pesano sulla valutazione dei partiti comunisti. Una nuova era iniziava per il movimento operaio del mondo. Il comunismo sarà visto d’ora in poi alla luce di una nuova critica di uomini liberi, onesti, sinceramente progressisti che sanno che la verità appartiene a tutti e non è l’esclusività di un Partito, di una Chiesa, di una Ideologia.
L’Europa, il mondo intero (ad eccezione della Russia dove la verità non può penetrare) conoscerà la verità sui fatti di Barcellona. Si saprà che Camillo Berneri e centinaia di rivoluzionari sinceri sono stati assassinati da agenti al soldo di Mosca.
Anche tra l’antifascismo italiano in Francia sorgono le prime polemiche: persino tra comunisti e socialisti legati tra di loro dal patto di unità d’azione. A proposito dell’assassinio di C. Berneri i comunisti rimprovereranno ai loro nuovi alleati di aver avuta la debolezza di commemorare C. Berneri, il che rivelava quanto fosse deficiente ancora la coscienza della rivoluzione antifascista persino in tanti che vorrebbero occuparvi posti di direzione e quindi di maggiore responsabilità. È questa una deficienza che bisogna superare…
E sempre a Parigi, in seno al partito socialista italiano, Modigliani si opporrà all’entrata di due comunisti nella Lega dei diritti dell’Uomo (uno dei quali aveva preso, ed in che modo!, le difese degli assassini di Camillo Berneri) ed affermerà che “non si può essere militanti fedeli al bolscevismo e sicuri assertori ad un tempo dei diritti dell’Uomo” (“Nuovo Avanti”, Parigi, 6 agosto 1937).
Bolscevismo e libertà sono due termini antitetici: ecco la verità che scaturisce da quegli avvenimenti. Il volto crudele e feroce del bolscevismo si è mostrato anche nell’Europa Occidentale.
Purtroppo, in seguito, di ben altri orrori e stragi esso si è macchiato e nonostante tutto, il mito bolscevico sopravvive. Perdura perché milioni di uomini sono stati per lunghi anni condizionati al fanatismo, all’ubbidienza, da una macchina che semina anche il terrore stritolando i dissidenti o diffamandoli quando non può sopprimerli. Però questo mito ha ricevuto dei duri colpi recentemente e la sua completa distruzione dipenderà dalla nostra fedeltà ai morti delle giornate di maggio del 1937, ai tanti altri assassinati nello stesso modo ed a quelli delle giornate ungheresi dell’ottobre-novembre 1956.
Camillo Berneri “era senza possibilità di dubbi il migliore degli antifascisti venuti a combattere in Ispagna”. Così lo definì Libero Battistelli, un uomo di profonda cultura e umanità che era venuto dall’Argentina per combattere con la Spagna del popolo, e che rimase ucciso sul fronte di Huesca qualche settimana dopo l’assassinio di Camillo.
Se Camillo Berneri fosse morto in pieno combattimento, con le armi in pugno, di fronte al nemico, la sua morte avrebbe addolorato ma non avrebbe suscitato collera e amarezza. Fu, invece, colpito a tradimento, nel buoi, senza che egli potesse vedere nel volto i suoi assassini.
Non per questo però la sua morte ha un significato ed un valore meno grandi. Essa rimane ugualmente il coronamento di una vita degnamente vissuta, tutta spesa per il trionfo della verità e della giustizia. È la morte dell’uomo giusto, quella che egli stesso aveva invocato nel suo Credo.
In Spagna, quella lotta per la giustizia sociale aveva un fronte ben più vasto e meno definito della guerra contro Franco. Difficile era valutare la forza del nemico e sapere dove si nascondeva e quali maschere esso portava. Come da sempre, esso si trovava in tutti i posti in cui si lavorava per ricostruire una qualsiasi macchina di Potere e di Comando.
Camillo Berneri è morto sulla barricata che egli aveva scelto all’età di 15 anni e dove ne era rimasto 25 anni, senza scoraggiamenti, senza stanchezze. Una vita, così intensamente vissuta e generosamente spesa, lascia dietro di sé qualche cosa di eterno.
Quando nell’ottobre 1949 (dodici anni dopo la sua morte) Le Libertaire di Parigi pubblicò uno scritto di Camillo Berneri con il significativo titolo “Invito alla vita”, una lettrice di quel giornale, credendo l’autore di quello scritto vivente, gli scrisse una lettera che conservo fra le mie carte perché mi è di conforto pensare che vi siano altri che lo sentono o lo credono vivo.
Ho bisogno, in questo momento, della comprensione e dell’indulgenza dei lettori di questa rivista per la violazione che sto compiendo di questo mio segreto. Ma in questo ventesimo anniversario dal suo assassinio mi pare che la pubblicazione di quella letterina, cos’ semplice e profondamente sentita, sia l’omaggio migliore che si possa fare alla sua memoria ed il solo che egli avrebbe certamente gradito.

Parigi, ottobre 1949
Caro compagno,
ho bisogno di ringraziarvi per quello che ho letto questa mattina sul nostro giornale settimanale. Lo rileggerò spesso e troverò sempre meraviglioso che altri siano così trasportati di entusiasmo per quelle ricchezze sconosciute che riempiono il mondo e che io vedo nella stessa vostra luce.
Quando si è meno forti e la miseria è troppo greve, quella gioia, che anch’io porto dentro di me, soffoca e mi pare sia estinta, mentre alla più piccola parentesi di calma si riaccende. Questa felicità è una grazia!
Dovete essere molto giovane, compagno, per pensare che tutto questo possa essere il bene di tutti. I lupi che ci circondano genereranno altri lupi. Tanto peggio per essi. Ma anch’essi, con le loro guerre, diranno: tanto peggio per loro. Poveri noi.
Mi afferro a quella speranza di rinnovamento universale di cui voi parlate.
Ma, quando voi parlate dell’amore io dico: “felice la donna che vi ama e che voi amate”. Questa missione è anche per lei.
Se un giorno voi venite in Francia, vi invito a casa mia. La via dove abito e lavoro è una via molto triste, vi è un solo albero. Guillaume Apollinaire vi ha abitato al numero nove, in basso della butte di Montmartre, proprio di fronte a me.
Voi vedrete i disegni che io faccio per i bambini. Mi firmo Carotte, questo nome piace loro. Non è una firma che si addice agli uomini semplici di domani?
Caro compagno, grazie ancora. E nonostante tutto vi auguro molta gioia, sempre.
Carotte.

Non ti ho mai cercata, amica Carotte. Ho voluto che tu continuassi a crederlo vivo, così come i suoi che l’hanno amato profondamente continuano a sentirlo dentro si sé.
Giovanna Caleffi Berneri

Di: Daniele Leoni

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