Alberto Meschi e l’alcolismo.

La bottega del vinaio: spazio naturale per la socialità del lavoro, dove pubblico e privato si intrecciano. Per i metallurgici, i tessili e i nuovi schiavi della macchina, il vino è un miracoloso carburante della caldaia corpo umano, antidoto alla fatica e alla tristezza.

L’alienazione, il disagio psicologico dei nuovi soggetti sociali, sradicati dal lavoro naturalmente regolato delle campagne e delle botteghe artigiane, si manifestano così in modo evidente. Anche nel Nord Europa, sia pure con differenti bevande, è sempre il moloch industriale a indirizzare i forzati della catena verso l’alcolismo.

Emblematica l’immagine del Vicolo del Gin (W. Hogarth) con il padre di famiglia che sperpera la paga del sabato all’osteria. Sull’onda di Zola e della Scapigliatura la letteratura sociale evoca la tristezza della miseria ma anche la giocosità dei commensali affamati. Nelle taverne fetide bollono le pentole dei maccheroni. Cleto Arrighi nel suo Ventre di Milano descrive questa alimentazione plebea: polenta fritta e baccalà, o la ghiotta “repubblica” mistura combinata con gli avanzi del salumaio, pane fatto con farina, cenere e polvere di marmo, e “vini che non si dovrebbero bere”.

La cattiva qualità del vino minaccia la salute dei malcapitati bevitori: “… fatte alcune eccezioni, si ha un liquido molto imbevibile. Ora siccome in alcune cantine si vendono vini a 20 centesimi il fiasco, non sarebbe bene che da chi spetta si analizzassero un momento codesti vini? …L’operaio non ci bada, pur di spendere poco, acquistando delle bevande degne della corrente del fiume” (L’Appennino, 1894).

In Europa, a fine ‘800, si assiste a una generale levata di scudi contro le “classi pericolose”. Mentre le prefetture del Regno emanano disposizioni per sorvegliare i potenziali luoghi di ritrovo dei sovversivi, arrestando questuanti e cantastorie. Così, per la stampa benpensante l’osteria è “un covo di perdizione ove i capi setta del radicalismo, del socialismo e dell’anarchia arruolano i loro gregari, ove la bestemmia ha tutte le sue forme infernali”. La descrizione è demonizzante: “…

Antro il cui ambiente è saturo di gas alcolici e di fumo, e vi echeggia un cicaleccio strano, un vocìo incomposto… luogo che è per l’operaio sorgente di tutte le sventure, e la causa di tutti i suoi malanni. L’operaio va incontro a mille malanni fino alla paralisi o delirium tremens e si procura figli idioti, rachitici, convulsionari… Vogliamo che la polizia vi eserciti la massima sorveglianza, per ritrarli da quei covi di perdizione e di anarchia” (L’Unità Cattolica, 1894).

Ecco l’osteria: occasione di socializzazione antagonista, sempiterna piaga sociale. Il movimento operaio ingaggia allora una battaglia di civiltà, invito ai lavoratori del braccio alla moderazione nel bere che accomuna le varie correnti del socialismo. Vi partecipano la Critica sociale di Turati come la stampa sindacalista anarchica. Non contro il vino, ma contro l’abbrutimento provocato dall’alcol.

Drammatica la testimonianza di Alberto Meschi: “Chi vi scrive è figlio di un alcolizzato suicidatosi a 33 anni per il troppo alcol bevuto, e ha passato la sua fanciullezza nella casa paterna, resa squallida e triste dalle continue liti tra il babbo e la mamma che ha sopportato il duro calvario di convivenza con un uomo, alcolizzato, che trasformava la casa, il focolare domestico, in un luogo di tormento e di dolori inenarrabili.

Le sofferenze morali, le privazioni erano tante e dolorose che formano ancor oggi un ben doloroso ricordo” (Il Cavatore, 1921). Meschi, “uomo di marmo” e sindacalista mitico dei cavatori apuani – oggi ricordato da un monumento nella sua Carrara – aveva promosso fin dal 1912 una lotta affinché i padroni cessassero di pagare il salario nelle osterie: “…I lavoratori si ubriacano mentre aspettano per delle ore nelle bettole la loro paga. Metteremo fine anche a questo sistema”.
Il 23 giugno 1912 Meschi in un comizio tenutosi a Carrara al Politeama Verdi affermò che il problema dell’alcolismo veniva favorito dai padroni secondo l’usanza di retribuire la quindicina ai cavatori dentro le bettole,usanza che secondo il segretario dell’Unione Cavatori di Carrara Cargioli obbligava l’operaio ad attendere per ore l’arrivo del capo cava con il salario,e nell’attesa beveva.

“Attende seduto intorno al tavolo chiacchierando con degli sventurati come lui,attende e beve,beve di quel liquore che gli darà la pazzia,che inevitabilmente lo porterà alla tubercolosi,così fino a che gli si annebbierà la vista e avrà perso la coscienza di se stesso,e quando avrà la paga

rimane,perché ormai è un essere che più non ragiona,non ha di umano nemmeno più le sembianze,quell’uomo ormai assomiglia alla bestia,capace nella sua incoscienza folle di sciupare nel vino tutta la sua quindicina,lasciando senza pane la sua disgraziata famiglia.

Allora i benpensanti grideranno all’abbrutito,diranno magari che vi sono in quantità scuole serali per facilitare l’educazione del lavoratore,e toglierlo alla bettola.

Ma perdio,se quell’uomo coi vostri sistemi medioevali lo avete spinto voi all’abbrutimento,al precipizio? Ma se la sua infelice famiglia non puol altro che ringraziar voi se è rimasta sprovvista di pane?”

Dal web

Alberto Meschi e l'alcolismo.
Alberto Meschi e l’alcolismo.
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