Il ruolo dello stato

p73Il ruolo dello stato

di Colin Ward
con introduzione di Francesco Codello da: Rivista anarchica.

Scuole private (magari “libertarie”) o scuola di stato?
E con che soldi? Obbligatorie o facoltative?
I temi affrontati in questo articolo uscito quarant’anni fa sono in buona parte ancora attuali.
E rileggere oggi l’architetto e intellettuale anarchico inglese è sempre stimolante.

Questo testo di Colin Ward (1924-2010) dal titolo The role of the state è apparso in un libro di autori vari (tra i quali va ricordato Ivan Illich), curato da Peter Buckman del 1973 in Inghilterra, con il proposito già evidente nell’intestazione, Education without schools.
In premessa occorre sottolineare due aspetti di contesto importanti, per coglierne la portata e la validità, evitando un approccio troppo ideologico. Il primo è appunto relativo all’anno di pubblicazione, siamo agli inizi degli anni settanta e Ivan Illich (1926-2002) ha da poco (1970) editato il suo testo forse più famoso, Deschooling Society (Descolarizzare la società, tradotto in italiano nel 1972) e la discussione scaturitane è molto vivace e animata; l’altro è che l’approccio al problema è tipicamente anglosassone e quindi fortemente pragmatico.
Al netto di queste due semplici ma doverose considerazioni, il saggio di Ward affronta in maniera pertinente e puntuale una delle questioni cruciali in tema di organizzazione dell’educazione e dell’istruzione in una prospettiva libertaria. Questo argomento è particolarmente importante in Italia, dove il dibattito sul sistema di istruzione e di educazione si è da sempre focalizzato tra due prospettive inconciliabili e fortemente ideologizzate: quella privatistica e quella statalista. A gestire la scuola, quindi a determinarne i contenuti e le modalità organizzative, dovevano essere o il privato (confessionale prevalentemente) o lo stato (teoricamente neutro e assimilato al concetto di pubblico). La prospettiva, che ormai sta caratterizzando decisamente gli anarchici, è invece quella della gestione pubblica ma non statale del sistema di istruzione. Ciò significa che il carattere pubblico (aperto a tutti) dell’organizzazione dell’apprendimento si deve coniugare con il rifiuto della confessionalità, ideologica e religiosa, e, al contempo, consentire che la gestione dello sviluppo educativo e di istruzione, veda una coordinazione diretta e paritaria dei vari attori del processo stesso. Naturalmente queste questioni sono di rilevante importanza e meritano una disamina più approfondita e ampia di quanto non sia qui possibile sviluppare.
Ecco perché questa saggio di Colin Ward si presta così bene a introdurre una discussione e una riflessione sulla gestione della scuola e offre l’occasione, a quanti lo desiderino, di uscire dalle strettoie soffocanti, e per nulla libertarie, di una discussione che accomuna trasversalmente destra e sinistra, intorno a una presunta esclusiva alternativa: o con il privato o con lo stato.
La storia delle esperienze di educazione libertaria peraltro testimonia molto bene invece la ricerca di una prospettiva terza, plurale, diversificata, sperimentale, di gestione dell’intero sistema di istruzione e di educazione, in modi più coerenti e conseguenti ai principi generali dell’antiautoritarismo. Le varie esperienze attuali, che si ricollegano idealmente a questo filone di pensiero, sono qui a dimostrare che questo non solo è possibile ma anche necessario, se si vuole, assieme ovviamente ad altre questioni (prima fra tutte quella dell’uscita dalla logica adulto-centrica), realizzare una autentica educazione libertaria.
Rileggere dunque questo testo di Ward, coniugandolo a tutte le varie espressioni del pensiero della descolarizzazione (da Paul Goodman a Ivan Illich, solo per citare i più noti autori), riflettere criticamente sulla storia e l’attualità di queste esperienze alternative, sperimentare qui e ora modalità e pratiche ispirate a questa prospettiva, è il compito che attende tutti coloro che, a vario titolo, sono interessati e coinvolti nelle problematiche educative e dell’istruzione.
Una prospettiva libertaria non può mai accontentarsi di farsi rinchiudere in logiche dualistiche, senza osare e tentare di sperimentare altre soluzioni, che meglio avvicinino i nostri valori coerentemente interpretati alla nostra vita quotidiana.

Francesco Codello

Come mai lo stato ha assunto quel ruolo di primo piano?
Storicamente, in Gran Bretagna, la lotta per rendere l’istruzione gratuita, obbligatoria, universale, e liberarla dall’esclusivo controllo delle organizzazioni religiose fu lunga e aspra.
L’effettiva opposizione non veniva da critici libertari, ma dai sostenitori del privilegio e del dogma nonché da coloro (genitori e datori di lavoro) che avevano un interesse economico nel lavoro minorile o uno inconfessato a favorire l’ignoranza. L’Inghilterra, di fatto, arrivò in ritardo: l’idea che l’istruzione dovesse essere gratuita, obbligatoria e universale precede di molto il definitivo Education Act, che fu approvato solo nel 1870.
Martin Lutero si era rivolto “ai membri del Consiglio di tutte le città tedesche affinché fondassero e tenessero in vita scuole cristiane”, osservando che i giovani in corso di formazione si trovano a loro agio se si cerca di “renderci migliori attraverso l’esperienza”, un compito per il quale la vita intera sarebbe troppo breve, ma che poteva essere semplificato un’istruzione sistematica per mezzo dei libri.
L’istruzione obbligatoria e universale nacque nella calvinista Ginevra nel 1536 e lo scozzese John Knox, discepolo di Calvino, “fondò una scuola accanto a una chiesa in ogni parrocchia”. Nel puritano Massachusetts l’istruzione elementare obbligatoria fu introdotta nel 1647. Federico Guglielmo I di Prussia rese obbligatoria l’istruzione elementare nel 1717 e, in Francia, una serie di ordinanze di Luigi XIV e Luigi XV imposero una frequenza regolare nelle scuole.
La scuola per tutti, nota Lewis Mumford, “contrariamente al credo popolare, non è il tardivo prodotto della democrazia del XIX secolo: essa svolgeva un ruolo indispensabile nella formula meccanica dell’assolutismo (…) l’autorità centralizzata riprendeva in ritardo l’opera che era stata trascurata con lo smantellamento delle libertà municipali in gran parte dell’Europa”. In altre parole, avendo soffocato l’iniziativa locale, lo stato agiva secondo i propri interessi. Storicamente, l’istruzione obbligatoria progredì non solo grazie alla stampa, all’ascesa del protestantesimo e del capitalismo, ma anche con lo sviluppo dell’idea stessa di stato nazionale.
Tutti i grandi filosofi razionalisti del XVIII secolo avevano riflettuto sul problema dell’istruzione popolare e due tra i più acuti pensatori si erano schierati sui versanti opposti del dibattito sull’organizzazione della scuola: Rousseau dalla parte dello stato e William Goodwin contro. L’Emilio di Rousseau postula una formazione completamente individuale (la società umana è ignorata e tutta l’esistenza dell’educatore è dedicata al povero Emilio); ciò nondimeno Rousseau, nel suo Discorso sull’economia politica (1758), sostiene un’istruzione pubblica “basata su regole stabilite dal governo… se i giovani sono educati nel seno dell’uguaglianza, se vengono loro istillate le leggi dello Stato e i precetti della Volontà Generale… Non possiamo dubitare che nutriranno un reciproco affetto come fratelli… per diventare a suo tempo difensori e padri del paese del quale sono stati tanto a lungo i figli”.
Goodwin, nella sua Inchiesta sulla giustizia politica (1793) critica nel suo insieme l’idea di una educazione nazionale. Ne riassume gli argomenti a favore, che sono quelli utilizzati da Rousseau, e solleva questo interrogativo: “Se l’educazione dei nostri giovani fosse completamente affidata alla prudenza dei genitori o all’occasionale benevolenza di privati, non sarebbe una conseguenza necessaria che alcuni siano formati alla virtù, altri al vizio, e altri ancora siano completamente trascurati?” Vale la pena di citare completamente la risposta di Godwin, perché si tratta dell’unica voce, alla fine del XVIII secolo, che ci parla con gli accenti della descolarizzaizone dei nostri giorni:
“Le piaghe provocate da un sistema di educazione nazionale riguardano il fatto, in primo luogo, che tutte le istituzioni pubbliche recano in sé un’idea di permanenza (…) l’educazione pubblica ha sempre speso le proprie energie a sostegno del pregiudizio; insegna agli allievi non la forza che sottopone ogni proposta alla verifica di un esame, ma l’arte di riprendere i concetti che siano già stati casualmente stabiliti (…) Anche nella modesta istituzione delle scuole parrocchiali, le principali lezioni che vengono impartite riguardano una venerazione superstiziosa della Chiesa d’Inghilterra e l’ossequio a chiunque indossi una giacca elegante…
In secondo luogo, l’idea di educazione nazionale si fonda su una incomprensione della natura dell’intelletto. Qualsiasi cosa faccia il singolo uomo per se stesso è ben fatta; qualsiasi cosa decidano di fare per lui il suo prossimo e il suo paese è mal fatta (…) Chi apprende perché desidera apprendere, ascolterà le istruzioni che riceve e ne imparerà il significato. Chi insegna perché desidera insegnare, svolgerà il proprio compito con entusiasmo ed energia. Ma il momento in cui l’istituzione politica decide di attribuire a ognuno il proprio posto, le funzioni di ciascuno si svolgeranno in modo supino e indifferente…
In terzo luogo, il progetto di un’educazione nazionale dovrebbe essere uniformemente scoraggiato in ragione della sua evidente alleanza con il governo nazionale (…) Il governo non mancherà di sfruttarlo per rafforzare la propria mano e per perpetuare le proprie istituzioni (…) La concezione che lo pone come promotore di un sistema educativo sarà evidentemente analoga al giudizio sulle capacità politiche di chi governa.”
Colin Ward
Istituzioni gerarchiche e coercitive

I critici contemporanei dell’alleanza tra governo nazionale ed educazione nazionale sarebbero d’accordo e dichiarerebbero che la tesi dell’esistenza di un ruolo positivo dello stato nel sistema educativo tradisce una totale incomprensione dell’argomento in questione, che la natura delle autorità pubbliche è di gestire istituzioni gerarchiche e coercitive, la cui funzione ultima consiste nel perpetuare la disuguaglianza sociale e di fare il lavaggio del cervello dei giovani perché accettino il posto loro assegnato nel sistema organizzato.
Un secolo fa l’anarchico Bakunin caratterizzava “il popolo” in relazione allo stato come “l’eterno bambino, l’allievo che si confessa per sempre incapace di superare l’esame, di arrivare al livello di conoscenze dei suoi insegnanti e di poter fare a meno della loro disciplina”. Oggi aggiungerebbe un’altra critica al ruolo dello stato come educatore in tutto il mondo: l’affronto alla giustizia sociale. Uno sforzo immenso di riformatori benintenzionati ha portato al tentativo di modificare il sistema per assicurare pari opportunità, ma questo ha prodotto soltanto una partenza alla pari, illusoria e puramente teorica, in una competizione che spinge a diventare sempre meno uguali. Quanto più grande è la quantità di denaro riversata nei sistemi scolastici in tutto il mondo, tanto minori sono i vantaggi per le persone al livello più basso della gerarchia educativa, occupazionale e sociale. Il sistema educativo mondiale finisce per essere un altro modo con cui i poveri sovvenzionano i ricchi.
Everett Reimer, per esempio, osservando che le scuole sono una forma di imposizione fiscale inversamente proporzionale al reddito, nota come i figli del dieci per cento più povero della popolazione degli Stati Uniti costano al pubblico 2.500 dollari a testa per tutta la vita, mentre quelli del dieci per cento più ricco costano circa 35.000 dollari. “Ipotizzando che un terzo si riferisca alla spesa privata, il dieci per cento più ricco riceve comunque per l’istruzione denaro pubblico dieci volte di più del dieci per cento più povero.”
Nel suo pamphlet censurato del 1970, Michael Huberman era arrivato a identiche conclusioni per la maggioranza dei paesi del mondo. In Gran Bretagna, anche ignorando del tutto l’università, spediamo il doppio per chi frequenta l’ultimo biennio di una grammar school rispetto ai diplomandi di una modern school, mentre se includiamo la spesa per l’università, si è calcolato (Labour Inequality, Fabian Society, London 1972) che la spesa per un anno di studi di uno studente universitario è pari a quella di tutta la vita scolastica dalla prima elementare alla licenza media superiore. “Mentre il gruppo sociale più ricco beneficia diciassette volte di più di quello più povero della spesa per l’università, il suo contributo di reddito è solo di cinque volte superiore.”
Possiamo così concludere che un ruolo notevole dello stato nel sistema scolastico nazionale nel mondo è quello di perpetuare l’ingiustizia sociale ed economica.
Ma il sistema scolastico in Gran Bretagna è un sistema statale? Il fatto è che da noi non una sola scuola è posseduta o gestita dallo stato. Le scuole sono di proprietà e mantenute (con l’eccezione di quelle indipendenti e delle cosiddette direct grant schools) da organismi scolastici locali. Questi ultimi ricevono il proprio reddito da una speciale imposta sugli immobili, ma siccome non è sufficiente per fare fronte alle spese attuali, questa imposta deve essere integrata da sovvenzioni del governo centrale, e così lo stato esercita un controllo effettivo ma occulto sulle attività degli organismi locali. Nonostante il teorico decentramento, le nostre scuole sono in sostanza simili, non solo nei termini in cui le definisce Ivan Illich, di “processo specifico per età e dipendente da insegnanti, che impone una frequenza a tempo pieno a corsi obbligatori”, ma per migliaia di particolari relativi alla gestione istituzionale e agli obiettivi.
I ricchi, a differenza dei poveri…

Per quanto il sistema decentrato britannico sia importante per chi vuole sperimentare un’educazione senza scuole, perché se vuole ricevere un aiuto ufficiale o una sponsorizzazione, o quanto meno tolleranza per un esperimento radicale, deve fare i conti con l’ente scolastico locale, e la pressione locale è molto meno pesante ed è possibile conquistarsi molto più interesse e sostegno sul posto che cercare di sgretolare il monolitico ministero dell’educazione e della scienza.
La questione centrale, nella discussione sull’istruzione alternativa in relazione con il sistema scolastico ufficiale in Inghilterra, come in gran parte dei paesi, è che tutte le possibilità sono vanificate dal fatto che ogni proprietario di casa e ogni contribuente sono costretti a finanziare il sistema così com’è. Questo fatto compiuto non sono inibisce lo sviluppo di alternative, ma comporta anche che queste alternative dipendano dal reddito marginale dei potenziali fruitori, oltre e al di là delle imposizioni obbligatorie per tenere in vita il sistema organizzato.
I ricchi che, a differenza dei poveri, dispongono di un reddito marginale, sono in grado di scegliere e mandano i propri figli nelle scuole indipendenti (John Vaizey ha calcolato che un terzo del costo dell’istruzione nel settore privato è recuperato con l’elusione fiscale). Anche qualcuno non tanto ricco ne segue l’esempio, convinto di fare del proprio meglio per i figli o perché è stato capace di capire come sia possibile far ottenere borse di studio per i figli. Ovviamente, però, gran parte delle scuole “indipendenti” (con l’eccezione di pochi istituti “progressisti”) sono identiche per tutte le caratteristiche importanti a quelle del sistema ufficiale, con l’unica differenza del numero di studenti per classe.
I critici radicali del sistema ufficiale possono far proprio uno di questi tre atteggiamenti. Il primo consiste nel fare pressione per far riversare nei sistemi alternativi una quota della spesa e delle strutture per l’istruzione. Il secondo è un tentativo di modificare il sistema o con un rivolgimento interno o con una pressione dall’esterno. I terzo è di procedere per conto proprio, ignorando il sistema ufficiale ma continuando, probabilmente, a finanziarlo con le imposte e le tasse. Nella pratica è probabile che si prenda un poco dei tre atteggiamenti contemporaneamente. Per esempio, quando John Ord e i suoi amici hanno fondato la Scotland Road Free School a Liverpool, hanno compreso in fretta la necessità di trovare l’assistenza dell’ente locale per l’istruzione. La stampa locale trovò irresistibilmente comico questo fatto, che invece era perfettamente logico. Se i genitori optavano per un’istruzione cattolica, questa sarebbe stata finanziata dall’ente locale. Se avessero scelto una grammar school con contributo diretto (e se i loro figli ne fossero stati ammessi) la loro istruzione sarebbe stata finanziata dal governo centrale.
Perché mai la Free School, come qualsiasi esperimento di descolarizzazione, non avrebbe avuto i titoli per ricevere i soldi che la Liverpool Corporation aveva comunque da spendere per i propri studenti? (Tutto quello che chiedeva era infatti una sede, la mensa scolastica e l’arredo, e tutto quello che ottenne fu un prestito di tavoli e sedie usati). Un membro della Commissione educazione dichiarò: “Se ci chiederanno di sostenere la scuola, ci chiederebbero di indebolire il tessuto di quello che si suppone dovremmo sostenere… Potrebbe andare a finire che in pratica nessuno studente voglia più frequentare le nostre scuole.”
Nei primi anni sessanta del secolo scorso, Paul Goodman elencava una mezza dozzina di esperimenti che un consiglio o un ente scolastico avrebbe potuto far propri se avesse avuto abbastanza coraggio. Sintetizzando un poco, questi erano:
1. “Niente scuola” per certe classi (senza danni culturali, perché ci sono ottime prove che i bambini normali apprendono le nozioni dei primi sette anni di scuola in un periodo tra i quattro e i sette mesi di buon insegnamento).
2. Fare a meno dell’edificio scolastico per qualche classe; fornire gli insegnanti e usare la città stessa come scuola.
3. Dentro e fuori dell’edificio scolastico, ricorrere ad adulti non qualificati della comunità – il farmacista, il bottegaio, il meccanico – come educatori che introducano i giovani al mondo degli adulti.
4. Rendere non obbligatoria la frequenza scolastica, come a Summerhill.
5. Utilizzare una quota dei fondi scolastici per mandare gli studenti in aziende agricole economicamente marginali per un paio di mesi all’anno.
La prima è un’idea fallita in partenza. Può essere popolare tra i ragazzi, ma i genitori penserebbero ovviamente di essere presi in giro. L’ultima proposta sarebbe probabilmente interpretata come un modo per sfruttare manodopera a buon mercato. Ma gli altri sono stati positivamente adottati da consigli scolastici americani e hanno trovato applicazioni in Gran Bretagna: le scuole speciali sono le più evidenti candidate alla loro adozione.
Il diritto a pratiche educative alternative

L’idea di una scuola senza muri, per esempio, è stata messa in pratica per più di un triennio dal Parkway Education Program nella città di Philadelphia con il totale sostegno dell’autorità scolastica. Gli studenti non sono selezionati, ma scelti per sorteggio tra i richiedenti di otto distretti scolastici della città decisi per criteri geografici, per le classi dalla nona alla dodicesima (cioè dai 14 ai 18 anni) senza tenere conto del rendimento scolastico e della condotta. Non ci sono edifici scolastici. Ognuna delle otto unità (che operano in modo indipendente) ha una propria sede con un ufficio per il personale e armadietti per gli studenti. La didattica si svolge all’interno della comunità: la ricerca di spazi è considerata parte del processo educativo. “La città offre un numero incredibile di laboratori di apprendimento: l’arte si studia nell’Art Museum, la biologia al giardino zoologico; i corsi commerciali e professionali si svolgono sui luoghi di lavoro, per esempio quelli di giornalismo nelle redazioni dei giornali, quelli di meccanica nei garage eccetera.” Il Parkway Program dichiara: “Per quanto si ritenga che le scuole preparino alla vita sociale, per lo più invece isolano gli studenti dalla comunità al punto da rendere loro impossibile capire come questa funziona […] Poiché la società come gli studenti soffre per le carenze del sistema scolastico, non è parso irragionevole chiedere alla comunità di assumersi qualche responsabilità nella formazione dei suoi giovani.” Qualsiasi autorità scolastica locale potrebbe dar vita a un progetto Parkway domani, se lo volesse.
Ma il più probabile incentivo al cambiamento, per indurre le autorità scolastiche locali a sostenere l’avvio di esperimenti di descolarizzazione, non sarà dato dall’esempio o dalla critica dall’esterno, ma dalla pressione dal basso. La massa di scolari e studenti recalcitranti e ribelli, ingabbiati dal sistema per un anno in più con l’allingamento dell’obbligo scolastico, rappresenteranno l’argomento più forte a favore del cambiamento.
È sempre esistita una certa percentuale di studenti che frequentano contro voglia, che mal sopportano l’autorità della scuola e le regole arbitrarie, e che attribuiscono uno scarso valore al processo educativo, perché l’esperienza personale dice loro che si tratta di una corsa a ostacoli, nella quale sono così spesso i perdenti che sarebbero stupidi a mettersi in competizione. Hanno appreso questa lezione proprio a scuola e non gli va di entrarci a cinque anni e a uscirne a quindici.
Che cosa succederà quando questo esercito di tagliati fuori in partenza, non più intimoriti dalle minacce, non più gestibili con le lusinghe, non più riducibili a una cupa acquiescenza con la violenza fisica, diventerà abbastanza numeroso da impedire il funzionamento della scuola tradizionale con una minima sembianza di efficienza? Sir Alec Clegg ci ha prospettato per anni questo scenario per avvertirci che dovremmo cambiare le nostre priorità in campo educativo e sociale. La crisi di autorità della scuola ci renderà tutti, insegnanti e studenti, descolarizzati e uniti nella richiesta di stare altrove.
Tutte queste piccole iniziative di centri di non frequenza, di laboratori collettivi e di alternative alla scuola, verranno allora assunte e sostenute dalle autorità, non perché si saranno convertite a una diversa teoria pedagogica, ma per sfruttarle come espedienti per togliere i ragazzi dalla strada e dalla scuola, che a sua volta sarà ben lieta di sbarazzarsi di quegli elementi che le impediscono di portare avanti il compito di preparare gli studenti più docili a occupare i propri posti nella meritocrazia certificata. Temo che lo stesso valga per l’idea del ruolo creativo per il sistema scolastico ufficiale, nello sviluppo di una formazione extra-scolastica in una società del tempo libero: la sua occupazione pratica funzionerebbe solo da terapia occupazionale per chi è disoccupato a vita.
È sciocco cercare di convincere i vari ministri dell’educazione o della pubblica istruzione di tutto il mondo di smontare il sistema: un sistema che rispecchia e tutela i valori dello stato. Sarebbe come se l’estinzione dello stato avvenisse per una legge del parlamento. E non dobbiamo nemmeno cadere nella trappola, avendo indicato nello stato un’istituzione restrittiva a protezione del privilegio, di rivendicare una legge che vieti la discriminazione nella scuola. Quello che dobbiamo rivendicare è il diritto a pratiche educative alternative per concorrere su un piano di parità. Quando l’Imperatore chiese al filosofo che cosa potesse fare per lui, il filosofo rispose: “Spostati un po’ in là: mi togli la luce.”

Colin Ward

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4 Risposte a “Il ruolo dello stato”

  1. Write more, thats all I have to say. Literally, it seems as though you relied on the video to make
    your point. You obviously know what youre talking about, why waste your intelligence on just posting videos to your blog when you could be giving us something informative to read?

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